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Menù stellati: in cucina i «cuochi» d’artificio non vincono più

Menù stellati: in cucina i «cuochi» d’artificio non vincono più

Nei ristoranti di livello la «trovata» gastronomica per stupire la clientela non funziona più. Vincono gli chef che intorno all’eccellenza fanno crescere un’impresa in grado di sostenere alti costi di gestione. In parallelo, hanno successo le trattorie. Ma di qualità…

«On devient cuisinier, mais on naît rôtisseur». Andrebbe scolpita su ogni ristorante questa massima di Jean Anthelme Brillat-Savarin (si diventa cuochi, ma si nasce rosticcieri) che è una sorta di sommario di un’opera antropologica come quella di Claude Lévi-Strauss, che nel suo saggio ll crudo e il cotto ha spiegato molto di ciò che ignorano gli chef (mai capito perché non chiamarli cuochi) e i critici gastronomici. Si può partire da un assunto: non c’è alcun bisogno di cucinare per nutrirsi. Lo sanno benissimo le multinazionali dell’alimentazione che spingono sui cibi preconfezionati, ultra-processati prodotti in laboratorio. È il sogno della pillola che nutre, elimina il fastidio di dover spartire una parte (sempre più esigua purtroppo) dei guadagni colossali che si fanno per sfamare il mondo con chi suda la terra. Il gioco i cosiddetti «cuochi d’artificio», quelli che fanno spettacolo più che cucina, non lo hanno capito.  Ma i numeri sono lì a dar loro fastidio. Hanno chiuso in un anno 18 ristoranti «stellati» e c’è chi come Felix Lo Basso – se n’è andato da Milano sbattendo via l’insegna al grido di «non mi capiscono» – rimprovera i clienti. 

Percorso inverso quello dei tre ragazzi lucchesi Benedetto Rullo, Lorenzo Stefanini, Stefano Terigi, che hanno detto «no grazie» alla stella perché il loro Giglio stava diventando ostico ai clienti. Come al solito in Italia, invece di comprendere, ci si è divisi in fazioni: i difensori dell’apparenza e i sostenitori della sostanza. Ben sapendo che l’apparenza si porta dietro il marketing (e le «marchette» di molti presunti food influencer e sedicenti critici gastronomici) e una serie infinita di orpelli che con la qualità del cibo non c’entrano nulla. A interpretare questa parte c’è il redivivo Ferran Adrià. Il suo elBulli che, a Roses in Catalogna, era diventato la mecca della cucina incomprensibile, ha chiuso da anni e non se ne sente la mancanza. 

Adrià è tornato a Milano per arringare i nostrani cuochi dicendo: siete fatti per stupire, il ristorante è un palcoscenico per far vivere un’esperienza a chi entra. Sicuro? I dati della Federazione italiana pubblici esercizi – per la verità un po’ datati – dicono che due anni fa in Italia se da una parte il «fuoricasa» ha fatturato 89,6 miliardi di euro dall’altra hanno chiuso oltre 28 mila tavole. Il modello di business ricchi premi e cotillon non funziona più. Le insegne con la puzza sotto il naso sono appena lo 0,2 per cento del totale, ma a conti fatti di 400 stellati possono stare sul mercato dell’eccellenza non più del 10 per cento, c’è posto per un altro centinaio nella fascia medio-alta; poi bisogna guardare alle trattorie. Delle due l’una: o il ristorante stellato alimenta una vera azienda che si fa catena, marchio e tiene insieme eventi, catering, prodotti, oppure con pochi coperti troppo personale, conti iperbolici si muore. E hai voglia a togliere le tovaglie per risparmiare sulla lavanderia e imitare il bistrot, il cliente obbedisce oggi più che mai all’equazione qualità-prezzo, soddisfazione-bisogno e degli spettacolini di Ferran Adrià non sa che farsene. 

È però vero che si può fare altissima ristorazione con buoni profitti. Lo testimoniano i fratelli Cerea a Brusaporto, Bergamo. Tre stelle Michelin da una vita, cucina solidissima che coniuga eleganza e tradizione e un gruppo dove tutta la famiglia è impegnata che fattura 103 milioni di euro. È entrata la terza generazione – Beatrice, Maria Vittoria e Vittorio – Chicco Cerea insiste nell’alta ristorazione come attenzione ai bisogni delle persone. La prospettiva è trovare partner finanziari forti per espandersi all’estero. Una strada che ha preso la famiglia Alajmo, che è quella di Antonino Cannavacciuolo (costretto però a chiudere il suo Bistrot). È il cuoco che si fa imprenditore come Moreno Cedroni che avendo a fianco Mariella Organi (sua moglie la migliore maître d’Italia) dalla Madonnina del Pescatore di Senigallia – due stelle – ha declinato Aniko il fish-bar, l’incantevole Clandestino a Portonovo, sul Conero, e il Tunnel fabbrica di conserve di pescato da primato mondiale. 

Ma senza catering, con i gettoni accattonati negli eventi (sempre più rari, peraltro) con menù rigidi e convivialità ridotta a zero perché la personalità dello chef deve dominare, caratteristiche degli stellati che tramontano, si fa poca strada. Con l’eccezione di chi come Massimo Bottura è ormai una star mondiale con la sua Osteria Francescana di Modena. Ci sono luoghi che fanno da ponte tra l’altissima cucina, l’eleganza e l’aggancio alla tradizione. Il massimo è Dal Pescatore, a Canneto sull’Oglio, Mantova, dove Antonio e Nadia Santini con i figli fanno diventare il buono e l’accoglienza «esperienza di vita». Il resto è la crisi del cosiddetto «fine dining». In realtà è il rifiuto che il cliente manifesta per chi propone solo forma senza sostanza. Che invece si trova nelle trattorie. Non è un caso se la Coldiretti attraverso una collaborazione attivata da Dominga Cotarella presidente di Terranostra manda i cuochi di campagna a lezione di tecnica. Non è un caso se la Confartigianato sta pensando agli «arti-chef» cioè a quei fornai, macellai, produttori di pasta fresca, a quei casari che possono diventare protagonisti della tavola autentica. Vanno alla grandissima esperienze come quella di Luca Gambacorta un po’ macellaio, un po’ ortolano, gestore di un luogo unico: Villa Iva  lì dove il Clitunno nel Cinquecento era forza motrice per un antico mulino. Fra Trevi e Foligno, il suo focolare sempre acceso sforna bistecche, tagliate, salsicce, la selezione di prosciutti è incantevole, le focacce sulla cenere esclusive. Carta dei vini ridotta all’osso (ottimi i sagrantini di Caprai e Trabalza) alcuni oli come quello di Casa Gola a esaltare l’«umbritudine». 

La stessa cifra dei fratelli Cristina e Mauro Rastelli, che su per la Somma Al Capanno di Spoleto offrono strangozzi, tartufi, funghi di grande fattura. È il tornare a essere «rotisseur» lo spirito che anima a Panzano, nel Chianti, Dario Cecchini il più celebrato beccaio (o macellaio); è l’anima antica di un’ospitalità eccelsa quella dei fratelli Gori (forse la carta dei vini migliore d’Italia) da Burde a Firenze dove si vivono la gioia e i fasti della vera trattoria; così come con la famiglia Tinari a Chieti, o all’Antica Osteria del Mirasole a San Giovanni in Persiceto, Bologna. La nuova via dell’alta ristorazione allora diventa quella dell’Osteria del Viandante, a Rubiera, Reggio Emilia. Jacopo Malpeli fa eccelsa cucina di territorio con ingredienti locali e di altissima qualità; i piatti sono Antico Doccia Ginori, i vini fantastici,  lo spettacolo è solo il menù. n © riproduzione riservata

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