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We are the world: la vera storia della lunga notte del pop

We are the world: la vera storia della lunga notte del pop

Compie 40 anni la storica canzone scritta da Lionel Richie e Michael Jackson, incisa a Los Angeles da 46 artisti in 11 ore. Tra imprevisti, capricci e momenti comici… – video all’interno

«Se non beccate le note giuste al primo tentativo, verrete accompagnati a casa in auto da me e Ray Charles (entrambi ciechi; ndr)». Tra le centinaia di aneddoti che popolano la lunga notte del 28 gennaio 1985, c’è anche questo monito di Stevie Wonder, uno dei primi ad arrivare agli A&M Recording Studios di Hollywood per non perdere l’appuntamento con la storia: quarantasei superstar della musica americana riunite per incidere la più famosa charity song di sempre: We are the world, 30 milioni di copie vendute e quattro Grammy Award.

Un progetto lampo, nato per raccogliere fondi a favore dell’Etiopia devastata dalla carestia. Da un’intuizione di Harry Belafonte che contatta il super agente delle star Ken Kragen, che coinvolge per la scrittura del brano Lionel Richie e, per la produzione, il migliore di tutti, Quincy Jones, che a sua volta fa incontrare Richie e Michael Jackson per comporre a quattro mani la canzone. Una storia d’altri tempi: oggi tutto questo si arenerebbe nella giungla di manager, consulenti e social media manager che accompagnano ogni cantante mediamente famoso. Per non parlare di un altro “piccolo” dettaglio: riunire quarantasei popstar intonate, in grado di leggere uno spartito, di armonizzare le loro voci con le altre e di interpretare al volo le parti assegnate. Magari senza scattare centinaia di inutili selfie e senza l’aiutino di Auto-Tune… Fantascienza.

«Check your ego at the door» (lascia il tuo ego fuori dalla porta): c’erano queste parole sul foglietto vergato a mano da Quincy Jones e appiccicato alla porta degli A&M Recording Studios di Hollywood. Lo hanno visto tutti entrando alla spicciolata, ignari della maratona di undici ore che li aspettava: da Tina Turner (che alle quattro del mattino chiede implorando un fish burger) a Cindy Lauper, Diana Ross, Paul Simon, Billy Joel, Willie Nelson, Al Jarreau, Huey Lewis, Bruce Springsteen (arrivato in auto da solo, stravolto dopo l’ultimo concerto del tour di Born in The U.S.A.).

A dirla tutta, non fu solo una notte “peace and love” quella del 28 gennaio di quarant’anni fa: negli A&M studios si respirava una tensione micidiale. E, infatti, non sono mancate le incomprensioni, la competizione, lo stress di molti nell’improvvisare con la voce davanti a tanti colleghi illustri, i tentativi maldestri di cambiare il testo all’ultimo istante, i capricci, le bizze e il tasso alcolemico troppo alto di alcuni. Detto questo, il miracolo realizzato da Quincy Jones, il maestro della classe più indisciplinata della storia della musica, è stato creare qualcosa di irripetibile, l’immagine eterna (perfettamente “fotografata” nel documentario Netflix, The Greatest Night In Pop) del tempio del talento. Quarantasei voci bellissime e famose al servizio dello stesso pezzo: non era mai successo prima. Su tutti Michael Jackson, timidissimo, con gli occhi perennemente coperti dagli occhiali da sole, che non rivolge la parola a nessuno, ma che davanti al microfono non sbaglia niente. Mai, nemmeno in mezzo una confusione incredibile, mentre insieme alla registrazione del pezzo viene realizzato in diretta il videoclip. Chilometri di cavi, fari accesi, tecnici, fonici e, lì in mezzo alla stanza una pattuglia di famosi, accaldati, affamati, in piedi da ore.

Sarebbe bastata una scintilla per far naufragare tutto in una manciata di secondi. Lo sguardo attonito di Michael Jackson e Lionel Richie quando Stevie Wonder propone senza successo di introdurre nel testo qualche parola in swahili (lingua diffusa in gran parte dell’Africa), fa il paio con l’irritazione di Quincy Jones e dei fonici per quel misterioso ronzio di sottofondo che disturba le parti vocali di Cindy Lauper, costretta a ricantare più e più volte la stessa strofa. Uno psicodramma che si risolve quando qualcuno suggerisce alla Lauper di togliersi le decine di collane e braccialetti che aveva addosso. E poi, il fantasma di Prince, atteso invano per ore. Voleva esserci, ma non in mezzo agli altri, registrando un assolo di chitarra in una stanza separata. Eloquente la risposta di Lionel Richie: «No, qui siamo tutti insieme nello stesso studio».


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Tutti insieme, compreso Bob Dylan, che per tutto il tempo ha stampata sul volto l’espressione del disagio. Lui, cantautore solitario e schivo, abituato a confrontarsi solo e soltanto con la sua voce, entra nel panico. Non sa cosa fare e come farlo, fino a quando Stevie Wonder si siede al pianoforte e, imitando la sua voce alla perfezione, gli dice: «Bob, devi fare così».

Aveva un asso nella manica Quincy Jones, una carta segreta per evitare che la session di registrazione diventasse un incubo: Tom Bahler, corista, arrangiatore e musicista di Inglewood, California. A lui Jones affida il compito più difficile: attribuire a ogni star una parte vocale. Senza se e senza ma. Bahler esegue e decide chi canta cosa e l’ordine di apparizione. La notte prima dell’incisione, insieme a Lionel Richie concorda una scaletta ferrea dei lavori. «L’obiettivo era non deviare dal progetto. Sapevo benissimo che ogni pausa prolungata avrebbe aperto la strada a mille richieste di modifiche e quello sarebbe stato l’inizio della fine, anche perché alle nove del mattino tutti sarebbero spariti inseguendo i rispettivi impegni professionali» racconta.

Dopo il grande caos, a registrazione quasi ultimata, le star, spontaneamente, iniziano a scambiarsi i rispettivi autografi sulle pagine degli spartiti. Una scena bellissima e surreale, la conclusione di un progetto lampo che ha portato ad una delle canzoni pop più potenti e famose di sempre. Tutto era iniziato in maniera rocambolesca a casa di Michael Jackson con Lionel Richie seduto al pianoforte, come racconta il cantante di All Night Long in The Greatest Night In Pop.

Lionel scrive sugli spartiti, prende appunti mentre intorno lui un uccellino non smette mai di cinguettare e il cane di Jackson abbaia senza sosta. A un certo punto, da uno scaffale alle sue spalle iniziano a crollare per terra, in rapida sequenza, uno dopo l’altro, decine di vinili. Lionel si volta e si trova davanti un pitone albino che sibila: urla come un pazzo fino a quando arriva Michael: «Ecco dov’era finito, non lo trovavo più. Non ti preoccupare Lionel, è venuto a salutarti, vuole solo giocare con te».

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