Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale
In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma
"Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire".
George Orwell
Al giorno d'oggi siamo impegnati a comunicare senza sosta ma di rado capita di domandarci: sto dicendo veramente quello che voglio dire?
Non siamo di certo i primi: da sempre nella storia anche i più grandi e rivoluzionari pensatori hanno dovuto fare i conti con il contesto storico, le pressioni sociali, le censure. Non a caso lo scrittore e giornalista George Orwell ha scritto la frase premessa a queste righe. Oggi, però, comunichiamo di continuo eppure è raro che diciamo esattamente quello che ci sentiremmo di dire. Vogliamo sempre fare la battuta più brillante su Twitter, corriamo a esprimere la nostra opinione sul fatto del giorno, magari senza esserci informati opportunamente, ma abbiamo consapevolezza di ciò che stiamo sacrificando sull'altare di questa gara?
L'era della post-verità
Ecco che le nostre parole vengono distorte, perdono di sincerità, spontaneità ma soprattutto di connessione col reale. Siamo d'altronde in quella che è stata definita era della post-verità. Gli "alternative facts" di cui si è parlato ultimamente negli Stati Uniti di Donald Trump sono un bell'esempio di come anche il linguaggio possa essere piegato a originare contraddizioni fino a poco tempo fa impensabili: i fatti erano fatti, senza alternative. I giornalisti incorruttibili, i profeti scomodi, i difensori del libero arbitrio sembrano martiri degni solo di vecchi film di Hollywood.
Le bolle in cui ci immergono i social o i mezzi digitali funzionano invece in un modo autoreferenziale e al contempo pericoloso: ci piacciono perché ci permettono di scegliere con chi relazionarci e scegliamo di farlo sempre con coloro che hanno opinioni che corrispondono al nostro modo di vedere, leggiamo solo cose che ci compiacciono, ma che ci tagliano anche fuori da una parte di società che la pensa diversamente da noi.
È questo il terreno in cui proliferano le fake news, piaga apicale del nostro tempo, difficili da smontare senza esporsi ad altre fonti di informazione. È così che evitiamo di andare a fondo nelle cose, a recuperare un senso della dimensione reale. Il politicamente corretto, la paura di offendere, un'isteria legata a quel che va detto e cosa no, limitano la libertà di espressione in un'epoca in cui essa è virtualmente al suo massimo.
Il coraggio di dire quello che si pensa
D'altronde è più comodo così: "Per farsi dei nemici non è necessario dichiarare guerra, basta dire quello che si pensa", diceva Martin Luther King. Se persone come lui si sono sacrificate in nome della libertà forse vuol dire che questi principî non riguardano solo l'opportunità personale, sono invece verie propri valori culturali.
Al contrario stiamo perdendo l'attaccamento alla realtà fattuale delle cose e anche l'inclinazione ad accettare la verità, anche quando è scomoda. Mentre è sempre più facile cadere nelle trappole della propaganda o della disinformazione, sarebbe opportuno correre dei rischi. Non esprimerci solo in modo da ottenere qualche "like" in più o con mille cautele per non disturbare poteri forti o prepotenti di turno.
In una recente intervista lo scrittore Eric Emmanuel Schmitt scriveva che siamo in "un'epoca vittimistica, in cui non facciamo altro che definirci vittime di qualcosa o qualcuno". Essere meno vittime forse passa proprio dalla forza che mettiamo nell'intonare la nostra voce su un accordo autonomo rispetto alla babele collettiva.
(Articolo pubblicato sul n° 24 di Panorama in edicola dal 31 maggio 2018 con il titolo "Troppi 'like' e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma")