L'odissea di un cronista romano, indagato per una telefonata gentile
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L'odissea di un cronista romano, indagato per una telefonata gentile

Il giornalista Silvio Leoni chiama un giudice bolognese per avere informazioni. Tono e parole sono più che cortesi. Ma la Procura di Ancona apre un'inchiesta per minaccia aggravata e altri reati

Avviso a tutti i giornalisti, in special modo ai cronisti di giudiziaria: non chiamate mai al telefono un magistrato, ed evitate accuratamente di rivolgergli domande. Soprattutto, guardatevi bene dall'usare un tono gentile perché rischiate di finire indagati per una serie di reati gravi, se non gravissimi. Vi pare impossibile, assurdo?

Eppure è quanto da mesi accade a Silvio Leoni, giornalista romano del Secolo d'Italia, incaricato di seguire il processo per la strage di Bologna del 1980. Da sette mesi, una telefonata fa sì che Leoni sia indagato, con tanto di sequestro del cellulare. Ad aprire l'inchiesta, lo scorso novembre, è stata la Procura di Ancona, competente per i reati che riguardano i magistrati bolognesi. Il sostituto procuratore Irene Bilotta indaga il giornalista perché il 18 ottobre 2019 ha fatto una telefonata di lavoro al giudice Michele Leoni (l'omonimia è del tutto casuale), cioè il presidente della Corte d'assise di Bologna che in quel momento stava giudicando il quarto presunto attentatore della stazione, l'esponente dei Nuclei armati rivoluzionari Gilberto Cavallini, poi condannato all'ergastolo in gennaio.

La telefonata, che Panorama.it ha potuto ascoltare, è breve e tutt'altro che minacciosa. Il cronista chiama il giudice, si presenta con cortesia. Il suo tono è pacato, di certo non pare aggressivo: «La disturbo? Mi scusi…». Leoni spiega al giudice che vorrebbe porgli qualche domanda su questioni attinenti al processo, e inizia ad accennarne i temi. Il magistrato lo interrompe: «Mi spiace», dice, «ma non rilascio interviste… non è nella mia deontologia». Il giornalista ne prende atto. Non insiste. Dice: «Capisco». Ringrazia. Scambio di saluti, sempre cortesi. Stop. La telefonata dura in tutto 53 secondi.

Poco dopo, Leoni spedisce al giudice un messaggio WhatsApp che, se possibile, è ancora più gentile della telefonata. Il giornalista si dice dispiaciuto del fatto di non aver ricevuto risposta ai suoi dubbi, ma aggiunge che il silenzio che gli è stato opposto gli ha fatto apprezzare la serietà del suo interlocutore. «Io vengo da una vecchia famiglia di magistrati di Rieti» scrive Leoni «e sono cresciuto nel mito di una magistratura al di sopra di ogni cosa. Le riconosco il merito di gestire questa vicenda (cioè il procedimento contro Cavallini, ndr) con grande equidistanza. Spero di incontrarla per un caffè quando sarà concluso il processo. Buon lavoro». Il giudice risponde con un altrettanto sereno: «Grazie».

Questi due dialoghi, a dir poco inoffensivi, scatenano invece una vicenda giudiziaria surreale. Il giornalista viene indagato per minacce aggravate e accesso abusivo a un sistema informatico, due reati che prevedono fino a 4 anni di reclusione. All'origine c'è un antefatto, del tutto scollegato. Un mese prima della telefonata, il 19 settembre, il presidente della Corte d'assise di Bologna ha trovato rotto lo specchietto retrovisore della sua auto e ha denunciato il danneggiamento, aggiungendo di temere possa trattarsi di un gesto dai risvolti intimidatori. Ma nessuno, tantomeno il magistrato, ipotizza il minimo collegamento tra il danno e la telefonata del cronista. Da questo punto di vista, l'anomalia è doppia. Perché, come lamentano i difensori di Leoni, gli avvocati Paolo Palleschi e Valerio Cutonilli, i due reati per i quali s'indaga sono procedibili solo a querela di parte, ma il giudice Leoni non ha denunciato il cronista. Si è limitato a raccontare della telefonata in un incontro di lavoro con i carabinieri di Bologna, i quali poi hanno trasmesso del tutto autonomamente una nota di polizia giudiziaria alla Procura di Ancona.

E allora? Allora a collegare tra loro i fatti e a colorarli di nero, a quel punto, restano soltanto i sospetti del pm Bilotta. Che il 6 novembre ordina di sequestrare cellulare e computer al giornalista: sostiene che l'indagato si è «abusivamente introdotto nel contenuto del telefono cellulare del dottor Michele Leoni, acquisendo i suoi dati personali e, dopo aver tentato di contattarlo telefonicamente, inviandogli un messaggio mediante l'applicativo Whatsapp nel quale faceva riferimento in modo insistente e intimidatorio al processo in corso sulla strage di Bologna».

D'insistente o intimidatorio, in realtà, non sembra ci sia davvero nulla. Quanto all'intrusione, ogni giornalista sa bene come trovare un numero di telefono, anche il più riservato: e non c'è bisogno di trucchi informatici, basta l'aiuto di un collega «su piazza». Tant'è che il 29 novembre il Tribunale del riesame di Ancona annulla il sequestro scrivendo che «non può neanche parlarsi del fumus dei reati ipotizzati». Il Tribunale aggiunge che la telefonata può forse essere stata «inopportuna». E sostiene che «il contenuto criptico del messaggio inviato, unitamente alla circostanza dell'essere a conoscenza del numero privato di un giudice, potrebbe anche interpretarsi come una minaccia indiretta e silente», ma conclude che «sarebbe comunque carente la condizione di procedibilità», in quanto manca la denuncia del magistrato. Quanto all'intrusione abusiva, il Tribunale decide che «appare proprio carente il fumus del reato, non apparendo così impossibile reperire un numero telefonico privato».

Così cellulare e computer tornano al giornalista. Ma il Pm Bilotta insiste e lo stesso 29 novembre ridispone il sequestro del cellulare e ordina accertamenti sul suo contenuto: dai contatti della rubrica ai messaggi. Inutilmente Carlo verna, presidente dell'Ordine dei giornalisti, chiede un intervento al ministro della Giustizia e al Consiglio superiore della magistratura. Non serve nemmeno la protesta dell'Associazione della stampa romana, che definisce il sequestro «abnorme» e «non basato su fatti», e «un grave vulnus dello Stato di diritto» il controllo dei contatti nella rubrica di Leoni.

Poi scoppia l'epidemia, l'attività giudiziaria si sospende. Silvio Leoni e i suoi avvocati immaginano che l'inchiesta scivoli verso l'archiviazione. Invece lo scorso 3 giugno, pochi giorni prima della scadenza dei termini delle indagini preliminari, il Pm Bilotta ne chiede la proroga indicando altre tre gravi ipotesi di reato contro il giornalista. Oltre alle minacce e all'intrusione informatica, aggiunge la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario; le molestie; la violazione della privacy. Insomma, il cronista si trova immerso in un'inchiesta per la quale rischia, in teoria, una reclusione da un minimo di 1 anno e sei mesi a un massimo di 13 anni. Un incubo iniziato con una telefonata gentile. L'avvocato Palleschi protesta contro «un teorema che dire assurdo è poco». E forse il più gentile è lui.

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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