Essere Anja Rubik
La top model protagonista della cover story di Flair si racconta
ANJA RUBIK CI GIOCA con la sua fama di donna pericolosa, iconoclasta, propagandista erotica. E per non indietreggiare d’un passo si presenta all’appuntamento così: vestita da strega. Una gonna lunga e nera tagliata a strisce verticali, con sforbiciate furiose, come fanno le bambine a carnevale quando vogliono marciare sulla barricata opposta rispetto alle amiche che preferiscono Biancaneve. Poi il corpetto nero. I guantini a mezze dita. La pelle bianchissima e l’accenno sfoggiato delle occhiaie. Tanto che chi, pochi mesi fa, ha cancellato da Instagram con scandalo il profilo di 25, la rivista di fotografia erotica di cui Rubik è Editor in chief, ora troverebbe in lei cibo in abbondanza per la propria fame d’inquisizione. «Ho fondato il movimento Don’t fear the nipples, dopo quell’episodio. Una provocazione. Che si sta trasformando però in una cosa grande e importante» dice, sorseggiando tè Darjeeling. Ma poi ci sono anche segnali contrari, due soprattutto, che svelano una donna capace di portare in giro non solo robustezza ma anche un polline soave: la voce sottile ad esempio, dal volume controllato, vellutata. E la lingua che pur senza emettere suoni ineleganti s’impiglia ogni tanto tra le labbra se c’è da pronunciare la lettera “esse”, una esse che scivola verso la zeta, szex, regalando alla sua parlata decisa qualcosa d’infantile che ne controbilancia l’immagine forte, di modella ed editrice, donna d’affari, creativa, fonte d’ispirazione. Nel ristorante del Park Hyatt Vendôme di Parigi dove ci diamo appuntamento Anja è di casa, lo si capisce subito dalla cortesia con cui t’accoglie il personale quando annunci un appuntamento con lei. Che arriva puntualissima, reduce da una sfilata per l’haute couture di Versace su invito dell’amico Anthony Vaccarello, e da uno shoot col regista Daniel Sannwald che l’ha voluta come testimonial dell’edizione limitata di bottiglie Dom Pérignon disegnate dalla stilista degli abiti visionari e digitali Iris van Herpen. «Io e Anthony siamo amici, ci scambiamo idee, mi supporta nei progetti paralleli, che poi sono quelli che m’accendono e mi danno più slancio. Essere soltanto una modella è troppo poco, per me». E non è una posizione preconcetta, la sua. Ma una cosa cresciuta piano, scambiando opinioni con Paola Kudacki e Camilla Akrans, amiche e fotografe. O Phoebe Philo, stilista di Céline. O Giuseppe Zanotti, che l’anno scorso ha dedicato a lei una capsule collection definendola nientemeno che così: “Un’estensione dell’aura di Anja: spirito erotico con una nota chic punk”. Una donna che esprime il suo punto di vista, quando in realtà potrebbe accontentarsi d’essere vista. Che pone continuamente l’accento sull’io, sul me, cesello di un lavoro di autocostruzione che la rende intensa e centrata: «Cerco di proteggere il mio nucleo», dice ad esempio, «dalle tante versioni di me stessa che esistono là fuori». Fiumi di autostima che porterebbero a chiederle della sua vita lontana dalle passerelle, di come agisce nel mondo, distante da questo elemento protetto, da questa cosa che ormai sa fare fin troppo bene. Ma occorre resistere alla tentazione e chiederle di più, vedere fino a che punto è consapevole di quello che dà, o di ciò che gli altri vedono in lei. Ad esempio, ci sono poche modelle altrettanto precise e taglienti in grado di disegnare col corpo, forse nessuna come lei. Basta un lieve scatto del bacino, una sorta di messa a fuoco interiore che anticipa quella della macchina fotografica, e lei prende forma nello spazio. Basta guardare la campagna autunno inverno di Anthony Vaccarello ad esempio, dove si poggia in precario equilibrio su uno sgabello bianco, ispirata da Sex, il libro fotografico di Steven Meisel e Madonna («Lei rompeva gli schemi con un furore provocatorio vero. Madonna è la regina dell’ispirazione», ricorda Anja). O l’autunno inverno 2014 per Gucci, scattata da Mert e Marcus: niente effetti speciali, niente fondi fluo o ambientazioni esotiche. Solo lei, una gonna di pelle, un pannello color tortora, una borsa tra le mani, e un piccolo spostamento delle mani e dell’anca che muovono tutto quanto: «C’è un po’ di Frida Giannini, in quello scatto. Amo osservarla, assorbirne la dignità, il suo distacco elegante che alcuni scambiano per freddezza e che invece è un calore signorile che poche donne, ormai, possiedono». Parole che sembrano pronunciate da una donna perfettamente organica al suo business, senza rivendicazioni, senza rimostranze, un po’ deludente rispetto all’Anja inquieta che t’aspetti. E invece: «Io dico che il processo creativo, nella moda, sta diventando impossibile», afferma, senza scaldarsi, senza passare da una modalità mimica all’altra. «Negli shoot ci sono troppi crediti da inserire, marchi da soddisfare, e se devi fare dodici foto in un giorno, la qualità scende. Nelle sfilate? Stessa cosa, troppe stagioni: primavera/estate, autunno/inverno, i pre-show, la stagione resort/cruise. Gli stilisti non hanno tempo di esprimere il loro potenziale. Credo che occorra un moto di ribellione...
Si può leggere l'articolo su Anja Rubik sul numero 13 di Flair in edicola dal 23 ottobre con Panorama.