Da David Bowie agli Spandau Ballet, il racconto della musica e dei club nella Londra degli Anni '80
L'epopea del Clubbing nella Londra degli Anni ’80, raccontata da Flair , nel numero in edicola dal 28 novembre
Voleva diventare famoso, costasse quel costasse, Leigh Bowery. Non aveva ancora vent’anni quando decise di partire per Londra, seguendo il canto di sue personalissime sirene. Per colui che sarebbe diventato la massima icona in bilico tra arte, moda e trasgressione di una generazione, non fu troppo difficile salutare la sonnolenta cittadina australiana di Sunshine.
Là non succedeva mai nulla; nella capitale britannica, al contrario, qualcosa stava accadendo. Qualcosa che avrebbe cambiato per sempre etica ed estetica del paese. Mentre Margaret Thatcher cercava di invertire il declino dell’ex-impero con la sua ricetta politica iperliberista, un gruppo non più folto di un paio di centinaia di giovani chiedeva solamente di potersi (tra)vestire, ballare e divertire. La nave affondava, ma il dj alzava il volume sulla colorata, felicemente indecente nightlife degli Anni ’80.
«Dovevo saltare assolutamente su quel treno e palesarmi qui il prima possibile», spiegherà Bowery in una trasmissione televisiva pochi anni dopo. Quel treno era partito nel 1979 quando Steve Harrington, un dandy presto passato ai fasti delle cronache come Steve Strange, aveva inaugurato un piccolo locale a Covent Garden: si chiamava Blitz. A guardarlo oggi Steve è un uomo alle prese con i postumi dell’abuso di eroina e con qualche sporadica apparizione in TV, dove continua a riproporre la canzone Fade to Grey che con il suo gruppo Visage lo aveva catapultato in vetta alle classifiche, nel 1981. Allora era il principe dei pavoni, il primo della cricca a raggiungere la notorietà, e passava la serata alla porta apostrofando gli ordinari, i wannabes o coloro che non si erano sforzati abbastanza in creatività; all’entrata del club mentre gli piantava uno specchio in faccia chiedeva, sadico: «Ma tu, davvero ti faresti entrare qua dentro?».
Al Blitz si accede scendendo una rampa di scale molto ripida. Gli Spandau Ballet sono la band ufficiale, il dj Rusty Egan mette la musica: un po’ di Roxy Music, un po’ di disco e molto David Bowie, santo patrono dei nuovi flamboyant, che al club è anche passato a reclutare comparse per il suo video di Ashes to Ashes. «Gli uomini sembravano essere stati lanciati lì dal XVIII secolo e le donne venivano abbigliate a immagine e somiglianza delle star dei classici hollywoodiani», ricorda con Flair il fotogiornalista Alex Gerry, che fin dagli inizi aveva preso parte alla festa.
«Da una parte il Nuovo Romanticismo nasceva sull’onda lunga del punk riempiendone il vuoto, dall’altra c’era un Paese che si dibatteva tra socialismo e conservatorismo. Il risultato fu un manipolo di creativi pronti a cavalcare l’onda dell’imminente capitalismo», riflette il re dei cappelli Stephen Jones, che ammette: «A quei tempi vestivo come un Cecil Beaton uscito da un film di Fellini». Assieme a lui, provenienti dalla St Martin’s School of Art o dal Royal College of Art, si ritrovano qui il martedì stilisti poi passati agli annali come John Galliano, Katharine Hamnett e Wendy Dagworthy. Il fenomeno Clubbing e l’immaginario che lo informa avrebbe fatto da nutrimento anche ad artisti molto diversi tra loro: da Grayson Perry a Cerith Wyn Evans fino al regista Derek Jarman e, anni dopo, avrebbe affascinato anche Francesco Vezzoli, che ne ha parlato in una recente intervista a Repubblica…
Il racconto continua sul numero 8 di Flair, in edicola con Panorama giovedì 28 novembre