Jeremy Scott, il lato pop di un fashion designer
Il nuovo creative director di Moschino racconta a Flair: «Sono un outsider, voglio contagiare con la vitalità dello sport la moda e disegnare abiti che non abbiamo già nell’armadio». E così trasforma le sue provocazioni in show. L’intervista integrale è sul numero 11 di Flair, in edicola il 24 aprile con Panorama .
«Disegnare Moschino? Mi viene naturale, in fondo posseggo lo stesso humor». Interessante, ma scusi, lei prima di essere chiamato a fare il creative director era già un fan di Moschino? Una breve pausa, un leggero riposizionamento sul divano e poi: «Lei non ci crederà, ma al mio ultimo anno di college, quando ero al Pratt (il Pratt Institute, uno dei più noti college di arte e design di New York, ndr) ho lavorato per l’ufficio stampa Moschino, per Michelle Stein a New York. Non è incredibile?». Un segno del destino? «Forse, comunque a distanza di anni sono qui a disegnare le collezioni». Altro che eccentrico visionario dalle imprevedibili reazioni: Jeremy Scott, di Kansas City, Missouri, della provocazione fa solo la propria divisa estetica, perché in realtà è un professionista metodico, in grado di costruire la propria carriera, passo dopo passo, celebrity dopo celebrity in maniera sistematica. La sua poetica è emersa, prorompente, già alla sua prima collezione per il marchio Moschino, lo scorso febbraio, durante le sfilate milanesi. Lo show ha mandato in passerella un accostamento sapiente di elementi eterogenei: dai simboli tipici americani come McDonald’s e il cartoon SpongeBob agli elementi iconici dello sport, quali la canottiera traforata dei giocatori di basket o i pantaloncini in raso dei boxeur. Tutti elementi in grado di far emergere, da una parte, una nuova forma di moda pop e dall’altra un desiderio di possesso di pezzi altamente riconoscibili. L’operazione non è inedita per la maison, anzi Franco Moschino era stato un pioniere del feticismo delle cose e tra i primi a riconoscere un ruolo centrale agli aspetti irrazionali e magici delle merci. La pizza, la pasta, il tricolore, il mandolino hanno fatto parte di un lavoro attento di selezione e accumulo di materiali espressivi capaci di provocare in chi guardava un piacevole divertimento e, al tempo stesso, una responsabilità etica su usi e abusi, costumi e vizi dell’Italia tra Anni 80 e 90. Siamo lontani da quello spirito più ideologico, ma non lontani dalla stessa messa in scena dei codici espressivi, anche se nel caso di Jeremy Scott sulla riflessione critica prevale, forse, il marketing creativo e la cultura pop yankee, a partire dalla sua storica ossessione per lo sport.
Rigore, studio tecnologico dei materiali, che cosa c’è dietro la sua passione per l’abbigliamento sportivo?
Io sono americano e come la maggior parte degli americani considero lo sport parte integrante della quotidianità. La buona cucina sta agli italiani come lo sport sta agli americani. Per questo, da sempre, da quando ho cominciato a disegnare abiti non ho potuto far a meno di inserire anche pezzi di abbigliamento sportivo.
Questo perché spera nella diffusione di uno stile sportswear?
No, attenzione: non si tratta di sportswear. Non sto parlando di abbigliamento comodo, “stile sportivo”. Coco Chanel, e dopo di lei molti altri, hanno lavorato sulle soluzioni tecnologiche dei tessuti sportivi come, ad esempio, il jersey o la lycra, per introdurle nell’abbigliamento formale. Io invece parlo di sport, di vere sneaker, di pantaloni da jogging, di canottiere da basket, di pantaloncini da boxe. Porto nel mondo del fashion i pezzi classici dell’abbigliamento sportivo e non viceversa. Non rendo sportiva la moda.
Però lei gioca anche a stravolgere il rigore dello sport, come ha fatto per esempio, aggiungendo degli orsetti alle sneaker Adidas?
Sì è vero, ma non direi di aver sottratto rigore. Mi piaceva l’idea di suscitare un sorriso. Va detto che quelle sneaker sono a tutti gli effetti delle vere scarpe sportive, con la particolarità di un decoro divertente. Ma a pensarci bene, sono tanti i tentativi di sdrammatizzare i capi sportivi a cominciare dalle nuove grafiche e dai colori. Io con il mio teddy bear sono andato un po’ oltre.
Le piace andare sempre un po’ oltre?
Sì, ma non è una mera provocazione, come scrivono alcuni. Credo piuttosto che la gente possegga ormai tutto, che non abbia certo la necessità di comprare una felpa per coprirsi. L’acquisto è dettato da altre motivazioni come l’emozione, la sorpresa, la diversità. Io voglio disegnare capi diversi che non si posseggano già nell’armadio. Cose uniche.
Ma lei è sportivo?
Direi di sì... (...)
Si può leggere l’intervista integrale a Jeremy Scott, sul numero 11 di Flair, in edicola il 24 aprile con Panorama .