Karmen Pedaru: sono sempre stata brava a mascherare le emozioni
Katja Rahlwes
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Karmen Pedaru: sono sempre stata brava a mascherare le emozioni

La storia di copertina del nuovo numero di Flair, in edicola il 21 Febbraio 2013, è dedicata a Karmen Pedaru, la bellissima modella estone

Oggi i pixel della macchina fotografica si spremono le meningi con piccole scintille, ma comunque non riescono a catturare tutta quanta la bellezza. Ben inteso: l’immagine che restituiscono è perfetta, lo sfondo bianco risucchia tutti nella sua magia bidimensionale, le luci dello studio catturano i riflessi di una Parigi sotto la neve e la mano di Katja Rahlwes sullo scatto è ispirata e sicura. Ma il passato, quello che la bellezza si porta dietro, il suo lento rotolare fino all’approdo di oggi in questa sala di posa in rue Moret, la macchina fotografica non lo vede. Magari lo intuisce. Lo cerca. Tenta di acciuffarlo con una raffica di click. Ma quella dimensione temporale sfugge. S’aggrappa al trenino delle memorie e torna a inabissarsi nelle profondità. Lascia piuttosto che sia la top model a sbrigare tutto il lavoro al suo posto.

Karmen Pedaru, a ventidue anni volto prediletto, tra gli altri, di Gucci e Michael Kors, appoggia così la mano destra sul fianco imprimendo il suo sigillo sullo schermo. La Karmen fotografata, quella che appare al computer, è immobile, incorruttibile, splendente, iconica. La Karmen in carne ed ossa, poco distante e come in competizione con se stessa, incredibilmente riesce a fare altrettanto: mai un’incertezza, lo sguardo che per un istante si spegne portato via da un pensiero. Raro esempio di fascino concreto, reale, che vince sulla sua rappresentazione.
«Questo lavoro non lo puoi imparare», dirà più tardi, bevendo una “Diet Coke” e arrotolando nervosamente i filamenti della sua enorme giacca bianca di pelo. «O ti è stato instillato dalla vita, o non c’è nessuno che possa insegnartelo».

Karmen non è un nome comune in Estonia, credo.
No. L’ha scelto mia madre, in onore dell’opera di Bizet.

La protagonista del libretto è una zingara. È cresciuta libera e selvaggia anche lei?
Solo in parte. Mia nonna Hele-Mall lavorava in una grande fattoria, e quando andavo da lei passavo il tempo tra gli animali, mungevo le mucche, anche se più spesso le inseguivo per tormentarle. Non avendo fratelli e sorelle, quelli erano i miei giochi solitari.

I suoi che lavoro facevano?
Di loro non parlo, è una storia che mi rattrista. L’unica cosa che mi va di dire è che non sono cresciuta con loro, ma con l’altra mia nonna, che si chiama Elo-Mai.

Sembra il nome di una fata.
E invece faceva l’insegnante di storia.

Severa?
Abbastanza. Ma se oggi ho una buona educazione lo devo a lei. Era anche la mia professoressa alle superiori: a casa mi faceva studiare da morire.

In più non poteva bigiare a scuola, raccontare bugie, prendere delle note disciplinari. Davvero in trappola.
E non potevo neppure falsificare le firme sui brutti voti. Alla fine mi scopriva. Altra cosa pesante, mi obbligava ad andare a teatro ogni settimana: credo di aver visto tutti i balletti e i drammi della tradizione estone...

Leggenda vuole che lei sia stata scoperta in un teatro della capitale, a Tallin, quando aveva quindici anni.
Vero. Ero in fila al guardaroba con un’espressione annoiatissima. In coda davanti a me, per un gioco del destino, c’era la mia futura mother-agent. Dopo pochi giorni ero già davanti a una macchina fotografica.

Si sentiva destinata a qualcosa d’importante?
Tutt’altro. È un futuro che m’è venuto incontro in modo completamente inatteso.

Non aveva coscienza neppure di essere così bella?
Macché. A scuola i compagni mi massacravano perché ero magra e spilungona. Sono stata vittima di bullismo e la mia autostima, per molto tempo, è stata pari a zero.

L’amore, lo conosceva?
Con un ragazzo ci eravamo dati solo un paio di baci. Ma il primo fidanzato l’ho avuto solo dopo, quando ho cominciato a lavorare. Tra l’altro, in casa giravano pochi soldi e io avevo le stesse scarpe da ginnastica estate e inverno, e mi vestivo con quello che c’era. Su certe cose, si sa, i ragazzi sono parecchio crudeli.

I primi soldi guadagnati nella moda le hanno dato alla testa?
Un po’ sì, all’inizio.

Come ha speso il primo assegno importante?
Comprando una parure di Cartier. Oggi invece sono attenta, investo, non sperpero.

Nella sua città natale, Kehra, Estonia settentrionale, si sentiva alla periferia di tutto?
Decisamente.

Come se quello non fosse il suo posto.
Non solo: avevo addosso una sensazione ancora più strana, una cosa difficile da spiegare: era come se non appartenessi davvero alla mia famiglia. In senso fisico, intendo. Un po’ come si mi avessero rubata da un posto caldo e pieno di sole e portata a crescere lì, in mezzo a un mondo a cui non appartenevo.

Sognava?
Non troppo. Ho sempre vissuto immersa nel momento, nel giorno per giorno. Anche oggi sono un po’ così.

Mettiamola diversamente: progetti ne aveva?
Volevo diventare una sportiva professionista.

Ginnastica artistica, pattinaggio?
No: un calciatore.

Centravanti magari.
Portiere. Con un gruppo di amiche ci divertivamo ad andare al campo sportivo per guardare gli allenamenti dei ragazzi. Un giorno, abbiamo preso coraggio e abbiamo chiesto all’allenatore di far provare anche noi. Lui, incuriosito, al posto di cacciarci ha lanciato la sfida: se mettete insieme una squadra, vi alleno io. E così è stato. Dopo un paio d’anni, tra i pali, ero un fenomeno.

Momenti di gloria ne ha avuti?
Uno su tutti: la convocazione da parte della nazionale estone. Se non fosse arrivata la chiamata della moda, avrei continuato di sicuro.

Si dice che in una squadra il portiere sia il più matto, come il batterista nelle rock’n’roll band.
Valeva anche per me. Ma la mia era una follia sorda, che covava dentro. Sono sempre stata molto brava a controllarle le emozioni e a mascherarle.

Certo che lei è una donna di poche parole.
Dipende da chi ho davanti.

Di certo non è una donna cinguettante, che continua a ripetere “tesoro” e “amore”.
Detesto quel genere di ragazze.

Sarà una buona ascoltatrice, allora.
Anche qui, dipende. Mi piacciono i buoni consigli. Ma mi irrigidisco quando qualcuno cerca di impormi le cose. I consigli sono più brava a darli che a riceverli.

Le persone si confidano molto con lei?
Tanto che, a volte, mi sembra di essere la loro madre più che un’amica. Sarà che, in tema di difficoltà e di come affrontarle, la vita mi ha dato una sorta di laurea.

Com’è stato l’incontro con suo marito, l’art director Riccardo Ruini?
In realtà ci siamo visti per anni, sui set fotografici di mezzo mondo. Ma non ci eravamo mai parlati davvero. Poi, l’anno scorso, ecco l’incontro casuale, in quel club un po’ folle che è “Chez Rasputin”, a Parigi. Abbiamo iniziato a parlare, siamo andati a cena, e tutto è cominciato. Il primo agosto del 2012 ci siamo fidanzati. Il 14 dicembre dello stesso anno eravamo già marito e moglie.

Interessante: una giovane europea, nata negli anni ’90, sogna ancora l’abito bianco e il principe azzurro.
Per essere bianco, l’abito lo era. Un vestito maschile però, giacca e pantaloni. Indossati senza nulla sotto.

Avete organizzato una festa grandiosa?
La faremo la prossima estate, a Ibiza. E durerà almeno tre giorni. Di pura follia.

Lei ora viene a vivere in Italia. Dove si stabilirà?
A Roma, in un appartamento a piazza Farnese. Mi piace decorare, dipingere. Ci metterò molto di mio.

Ha talento in questo campo?
Nei quadri ci metto tutte le mie emozioni, usando pastelli a cera. Sembrano disegni fatti da una bambina.

Sarà una casa enorme, la vostra.
No. Io ho paura delle case grandi: non mi fanno dormire. Ogni volta devo controllare che non ci sia qualcuno sotto il letto, un mostro che possa prendermi per le gambe e trascinarmi dentro qualche abisso. Preferisco luoghi più raccolti e rassicuranti.

Ha anche paura del buio?
Sì. Devo tenere sempre la luce accesa. Mi calmo solo con un film comico.

Quando si guarda nelle foto, riesce a vedere il riflesso di queste inquietudini?
Lo vedono tutti, o almeno credo. Chi lavora con me viene sempre colpito dai miei occhi. Dicono che dentro ci sia qualcosa. Che sono strani. Che sono occhi pazzi.

E invece?
Invece sono soltanto occhi tristi.

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