Malika Ayane: "Per farsi ascoltare non serve urlare"
Intervista alla vocalist di "Senza fare sul serio", ospite nella tappa di Matera a Panorama d'Italia
Il Marocco, nella storia di Malika Ayane, non è solo un’opzione geografica: è la terra di suo padre, un luogo dove nel corso dei decenni si sono intrecciate vicende personali e suggestioni artistiche. "L’ultimo viaggio l’ho fatto con Oxfam, un’organizzazione non governativa che aiuta chi vive e si nutre a fatica in mezzo al fango. Al di là dell’aspetto umano, questa spedizione mi ha aperto gli occhi sulle straordinarie e inedite connessioni tra i suoni tribali e la dance che si balla nei club di casa nostra. Mi hanno impressionato tre poeti berberi che, con la sola voce e un tamburo, hanno letteralmente trasformato in discoteca una piazza stipata da migliaia di persone. Quello della danza liberatoria è evidentemente un bisogno primario che non conosce confini".
Nella storia della sua famiglia c’è un altro viaggio in Marocco che ha cambiato il corso degli eventi.
Esatto, quello che fece mia madre negli anni Sessanta. Come molti giovani della sua generazione, partì da sola, si innamorò di un uomo e lo sposò quasi subito. Papà era ed è un artista abilissimo nelle incisioni di bassorilievi su rame.
Chi, per primo, ha deciso di credere nella sua voce?
La proprietaria di Le Trottoir, un locale milanese dove lavoravo la sera. Dopo avermi sentito cantare, ha voluto che mi esibissi per i clienti che venivano
a cena. Venti minuti ogni venerdì sera. Poi, umilmente, tornavo a sparecchiare tavoli e a lavare bicchieri. Quelle brevi esibizioni sono state il primo passo significativo verso la vita che sognavo.
Lei appartiene a quella generazione di musicisti che hanno intrapreso una carriera subito dopo la fine della golden age della discografia italiana.
Diciamo che io sono arrivata quando la festa era già finita. Il giorno della firma del contratto mi hanno avvertito: guarda che di dischi non se ne vendono più come un tempo. Mi sono risparmiata un trauma, quello di chi era abituato a sbancare le classifiche vendendo cinquecentomila copie e che all’improvviso s’è dovuto accontentare di trentamila. Roba da analista.
A Sanremo 2015, dove ha presentato Adesso e qui (Nostalgico presente), ha esibito senza vergogna l’apparecchio. Una scelta controcorrente?
Lo considero un atto anarchico. A vent’anni sfoggi il piercing e i tatuaggi, a trenta puoi permetterti di andare orgogliosa sul palco con l’apparecchio. Con tutte le bocche rifatte male che ci sono in giro, non vedo perché avrei dovuto toglierlo per cantare all’Ariston. Credevo che il tabu dell’apparecchio fosse alle nostre spalle, ma pare che non sia così.
Tra le perle del suo curriculum c’è anche essere diretta da Riccardo Muti.
La mia prima parte solista alla Scala l’ha diretta proprio lui. Era un ruolo minore all’interno del Macbeth. Per l’audizione ci siamo trovate in dodici sul palco, davanti alla platea vuota, con gli occhi e le orecchie del Maestro puntati addosso. Alla fine, mi ha scelto. Una soddisfazione pazzesca, anche se per me, nata in Viale Ungheria, una zona periferica di Milano, essere fisicamente dentro la Scala era già un traguardo meraviglioso.
Si dice che faccia testare le nuove canzoni alle tre ragazzine della sua famiglia allargata.
Verissimo. Se piacciono a loro, ci sono ottime chance che conquistino anche il pubblico. Oltre alla mia bambina, che ha 9 anni, ci sono le due figlie di mio marito (Federico Brugia; ndr),
nate da un’altra relazione.
Considera trasgressivo essere diventata mamma a vent’anni?
Credo sia stato il gesto più punk di tutta la mia esistenza. Le mie coeteanee programmavano viaggi pazzi in treno nella capitali europee mentre io ero impegnata in riunioni fiume all’asilo con signore che avevano quindici anni più di me.
Lei si è fatta apprezzare per la grande qualità della sua voce, ma finora non ha mai ecceduto in vocalizzi scenografici, quelli che strappano l’applauso facile.
Esagerare con la voce è un po' come mettere troppo pizzo su un vestito. Se il vocalizzo è puro, sentito e necessario, allora è benedetto, se invece vuol essere banale dimostrazione di saper cantare, allora è totalmente inutile, fuori luogo.