I Manetti Shrem: Mecenati moderni della California
L'eccezionale coppia di filantropi crea a UC Davis un Museo d'Arte Contemporanea ideato come una rinascimentale bottega dell'arte
“Caravaggio! Se dovessi pensare allo stile di un pittore del passato, a cui paragonare la forza creativa di Maria Manetti, non avrei alcun dubbio: lei è un Caravaggio con tutta la sua potenza di realismo, di sfida e bellezza. Allo stesso modo, dovessi fare per Jan Shrem un confronto nella storia dell’arte, penserei indubbiamente alla raffinatezza e al mistero silenzioso di Giorgio Morandi.”
Per meglio inquadrare la coppia Manetti-Shrem, filantropi fuoriclasse di San Francisco, la sera della “Legacy Dinner” – la cena dei benefattori con cui questi mecenati dell’arte lo scorso autunno hanno raccolto in una sola serata quasi 1 milione di dollari in beneficienza a supporto del nuovo Jan Shrem & Maria Manetti Shrem Museum Of Art a UC Davis —, a chi meglio affidarmi fra gli ospiti eletti, se non alle parole del grande pittore novantaseienne, Wayne Thiebaud?
Wayne Thiebaud, professore di storia dell'arte alla UC Davis (California) e artista contemporaneo di famaGregory Urquiaga
Il vecchio maestro – noto per la pittura di comuni oggetti di cultura di massa, dai pigmenti fortemente intensi e accesi, e per questo spesso associato alla Pop Art con Lichtenstein e Warhol – è strettamente legato a UC Davis come altri celebri artisti ora in mostra, tipo Robert Arneson, Roy De Forest, Manuel Neri, William T. Wiley e Robert Peterson, entrambi presenti alla serata di apertura.
La testimonianza di Thiebaud è unica e irripetibile. Uno dei più grandi artisti viventi e di fama internazionale ritrae i Manetti-Shrem, facendo riferimento allo stile di due giganti indiscutibili del passato artistico italiano, quali Caravaggio e Morandi. Due artisti estremamente iconici, così lontani (nel tempo e nello stile), e così vicini almeno per il “genere pittorico minore” in cui entrambi hanno eccelso come pochi, vale a dire la natura morta.
Avventurieri e sognatori, pionieri e visionari armati di resilienza e determinazione, proprio nella San Francisco Bay Area, i Manetti Shrem hanno dato vita ai propri sogni, permettendo ora anche ai migliori talenti di tutto il mondo la possibilità di realizzare i loro a UC Davis. Il nuovo museo di arte contemporanea non ha infatti solo spazi espostivi, ma anche aree dedicate per creare e realizzare opere, motivo per cui Maria Manetti Shrem lo ha battezzato come: “una bottega dell’arte nella migliore tradizione rinascimentale di Firenze.”
I Manetti-Shrem al taglio del nastro del Jan Shrem & Maria Manetti Shrem Museum Of Art a UC DavisManetti-Shrem
Genesi del progetto museale e spirito della missione
Nel 2011 i Manetti-Shrem, raccogliendo un sogno affidatogli dall’amica e filantropa Margrit Mondavi (scomparsa nell’estate 2016), investono per primi $10 milioni per la realizzazione che ne è costata oltre 30, intestandosi così il progetto ambiziosissimo di realizzare un Museo di Arte Contemporanea a UC Davis, in una tenuta che era rimasta vuota per anni, proprio accanto al Robert & Margrit Mondavi Center for the Performing Arts.
Allestimento dell'Opening del Museum Of Art a UC Davis - CaliforniaAMZ
“Nessuno meglio di Maria e Jan” – come sentenzia l’infaticabile socialite, Denise Hale,grande dame di San Francisco ed ex moglie del regista Vincente Minnelli – “poteva portare a termine un’opera di tale imponenza e bellezza.” Dallo scorso novembre il Manetti-Shrem Museum è una realtà concreta che incoraggia le nuove generazioni di sperimentatori a venire a UC Davis, e così anche il pubblico dei cultori dell’arte contemporanea, e famiglie e bambini.
Perché un’opera del genere vedesse la luce ci voleva la raffinata passione di un collezionista come Jan Shrem e “una forza della natura” quale quella di Maria Manetti Shrem – secondo la definizione comune che ne danno gli amici e più stretti conoscitori. Il Console Generale d’Italia, Lorenzo Ortona, ne riconosce le qualità di “eccellente ambasciatrice della cultura italiana”; mentre la moglie Sheila Pierce Ortona, ne sottolinea: “la straordinaria combinazione di spirito imprenditoriale americano e simpatia italiana.”
Keith Geeslin, direttore della San Francisco Opera, e la sua consorte Priscilla Geeslin – entrambi collezionisti proprio del genere di arte contemporanea del Museo Manetti-Shrem –, della coppia di generosi benefattori elogiano particolarmente “la passione in sinergia fra due punti di vista diversi”; le cui anime “si rispecchiano rispettivamente nell’Opera italiana e in Tristane und Isolde di Wagner.” Uno dei più grandi collezionisti di auto d’epoca al mondo, Peter Mullin, amico fraterno dei Manetti-Shrem, completa ludicamente il quadro di analogie dialettiche tra Maria e Jan, paragonando la prima a una “meravigliosa Delahaye, Type 165 del 1939, di cui oggi esistono al mondo solo due esemplari”, e il secondo a una “essenziale Bugatti Grand Prix del 1931.”
Senza dover aggiungere altre immagini su immagini di encomi e apprezzamenti, ci sarà d’altronde un motivo se per la serata di apertura la signora Manetti-Shrem ha persino ricevuto un video-messaggio di congratulazioni da un suo amico assolutamente speciale, quale l’erede al trono britannico, Carlo, il Principe di Galles - il quale lo scorso 3 Aprile è stato onorato, con la Manetti Shrem alla sua destra, del premio “Renaissance Man of the Year” dalla Fondazione Palazzo Strozzi USA, durante una cerimonia in cui Andrea Bocelli ha cantato per nobili e aristocratici britannici e italiani; oltre che ad essere riuscita a chiamare in soccorso per la beneficienza a supporto del nuovo Museo di UC Davis, altri facoltosi filantropi e amici volati da ogni parte degli Stati Uniti d’America e del mondo; coinvolgendo sponsor del calibro di Gagosian Gallery (Courtney Raterman della Gagosian Gallery di Los Angeles era in sala), Sotheby’s e Bulgari.
Il principe Carlo d'Inghilterra e Maria Manetti ShremManetti Shrem
Un successo senza precedenti, di cui si è accorto recentemente il Council for Advancement and Support of Education – un’associazione internazionale per il marketing, lo sviluppo e le relazioni professionali delle alumni, che lavora per oltre 3.400 college, università, e scuole indipendenti in oltre 70 paesi –, riconoscendo al “Legacy Dinner” dei Manetti Shrem, il “Gold Award” degli eventi speciali.
L’evento di apertura organizzato a UC Davis è adesso lo standard d’oro per gli eventi speciali di tutti i campus universitari.
Il museo, a cui si può accedere gratuitamente, è un tempio dell’arte contemporanea, che custodisce qualcosa come 5.000 opere d’arte create da quei leggendari artisti-insegnanti e dai loro artisti-studenti. “Finalmente quella straordinaria produzione di arte sperimentale, sviluppatasi proprio qui a UC Davis – come sottolinea il rettore ad interim, Ralph J. Hexter – trova ospitalità grazie a questo gioiello unico che i Manetti-Shrem ci hanno regalato”. Maria Manetti Shrem commenta dal canto suo: “Continuiamo a UC Davis una tradizione iniziata 60 anni fa, che diede vita ad artisti incredibili. E vogliamo ricrearla.”
Le fa eco il consorte, Jan Shrem, spiegando che: “La nostra filosofia del ridare indietro poggia su basi molto semplici. Crediamo che l’istruzione e le arti dovrebbero essere accessibili a chiunque, e che una mente curiosa e aperta dovrebbe essere nutrita e sostenuta”.
Parole di emigranti di eccezionale successo quelle dei Manetti-Shrem che nell’America di oggi sembrano un po’ stridere, facendo però ben sperare ancora nel sistema dell'istruzione pubblica. “Credo che il museo contribuirà a elevare l’anima degli studenti” – continua la signora Manetti-Shrem – “Sarà un asset molto importante per il resto delle loro vite, potendo aiutare in qualche misura a fare avverare i loro sogni. Io e Jan ricordiamo bene – puntualizza ancora Maria – cosa significa iniziare la vita da zero in un mondo nuovo, in cui l’istruzione è stata la nostra salvezza e le arti la nostra più grande gioia”.
Studenti della UC Davis (California) visitano il Museo Manetti ShremManetti-Shrem
Secondo il credo di Jan Shrem e Maria Manetti Shrem, infatti, ci sono: “tre grandi momenti nella vita: il primo è quello fondamentale della formazione e dell’istruzione; il secondo è quello del lavoro durissimo e dell’esecuzione senza riposo; il terzo, per noi adesso, è quello del tempo per ridare indietro quanto siamo riusciti a guadagnare in un’intera vita di sacrifici.”
L’architettura e la direzione del museo
“Con la sua bellissima grande copertura bianca, attraverso le cui fessure la luce del sole si infiltra facendone modulare di continuo un flusso di luce e di ombre, il museo, che sorge in questo angolo incantevole della campagna di Davis,” – come descrive attentamente Richard Walker, orgoglioso alumnus di UC Davis, e co-founder del Napa Valley Festival del Sole – “si inserisce con perfetta armonia in questa area dove scienza e arte sono sempre andate a braccetto; incarnando questo momento di brillante trasformazione di UC Davis”.
Si tratta effettivamente di una straordinaria opera d’arte in sé realizzata dal giovane architetto olandese, Florian Idenburg (co-founder con Jing Liu dello studio SO - IL; cultore della scuola giapponese e associate professor of practice ad Harvard) in collaborazione con Karl A. Backus (studio americano noto per la sua firma stilistica sulla catena dei negozi Apple e per gli Studios di Animazione della Pixar, per il UC Santa Cruz Digital Arts Research Center e UC Santa Barbara). Idenburg definisce la sua opera architettonica come una sintesi tra “la leggerezza nipponica in omaggio alla cultura Jan Shrem” e “la magnificenza e la grandeur ricercata da Maria Manetti.”
Il modello del Jan Shrem & Maria Manetti Shrem Museum Of Art a UC Davismanetti-shrem
A guidare il Manetti-Shrem Museum, la bravissima Rachel Teagle, al suo terzo lancio di museo, con un dottorato in storia dell’arte contemporanea conseguito a Stanford, e una variegata esperienza museale già alle spalle, dalla Bay Area a San Diego tra la Anderson Collection e il SFMoMA, il Museum of Contemporary Art di San Diego e il The New Children’s Museum di San Diego. La Teagle dichiara: “la proposizione di valore unico di questo museo è proprio nella coppia Manetti-Shrem, che lo ha reso possibile collaborando per anni con un numero enorme di persone, e soprattutto mettendo a nostra disposizione la loro straordinaria comunità. Insieme sono una forza inarrestabile, coniugando idee raffinatissime e molto creative, con pragmatica capacità di esecuzione”.
Per questa nuova sfida la Teagle alza la barra, dichiarando: “Art Wide Open: vogliamo mostrare una gamma di arte molta ampia, da quella che ispira grande bellezza, all’arte che si impegna in problematiche sociali del tempo.” UC Davis, con la sua rinnovata facoltà di arte, la diversità delle sue collezioni, e le sue mostre anticipate, grazie all’originalissimo museo Manetti-Shrem solidificherà la reputazione dell’università nel mondo dell’arte.
Le vite parallele di due emigranti esemplari
Maria Manetti, di origine fiorentina – “la quintessenza dell’italianità”, come la definisce la filantropa americana e “sorella gemella”, Merle Mullin – è stata la forza principale dietro l’internazionalizzazione di Gucci nei magazzini generali nord-americani, quali: Magnin, Saks Fifth Ave, Bloomingdale, Macy’s, Nordstrom e Neiman Marcus.
Maria Manetti: gli anni ‘60 in Toscana
Negli anni ‘60 a Firenze, la giovanissima Maria Manetti e il suo primo marito, il pugliese naturalizzato americano, Edward De George – raccolta l’eredità della moda “Made in Italy”, ideata per la prima volta dal toscano Giovan Battista Giorgini, che esportava artigianato in USA sin dagli anni ‘20, e che con la prima sfilata collettiva di alcune sartorie italiane, organizzata il 12 febbraio 1951 nella propria residenza a Villa Torrigiani, sancisce la nascita della moda italiana, allargandosi l’anno successivo nella Sala Bianca di Palazzo Pitti – si impongono con un’azienda strategicamente costruita, lavorando 18 ore al giorno, per diventare la piattaforma per l’internazionalizzazione della moda italiana.
Per la giovanissima Maria, il signor De George (25 anni più grande di lei) è una sorta di “mentore culturale, soprattutto per l’opera e la musica classica. A lui devo la scoperta e la conoscenza del più ampio repertorio classico, del Maggio Fiorentino, dei grandi cantanti dell’opera come Renata Tebaldi. Per me Edward De George era una sorta di figura paterna, con cui viaggiavo per lavoro soprattutto in USA: eravamo soliti arrivare a NYC per muoverci poi come “gipsy” attraverso gli States e visitare i nostri clienti.”
In meno di una decade Manetti e De George sono letteralmente i leader del settore export della moda Made in Italy, finché non appare un giovane amico di famiglia, lo studente in architettura di Berkeley, Stephen Farrow. Una sorta di divinità greca, “un Adone in jeans” che come un “teorema” sconvolgerà le loro vite. Non basterebbe Leoncavallo per riscrivere I Pagliacci, Shakespeare per fare risuonare Otello nelle corde del melodramma di Verdi, la materia della vita di Maria Manetti è talmente magmatica che le sue trame potrebbero assolutamente rivestire una dramma d’amore universale per una nuova creazione Hollywoodiana, che unisce insieme: dolore e gioia; tutto e nulla; guadagno e perdita; sfide esemplari e traguardi miliari; successo e fallimento; lo Stivale Italiano e il “sogno americano.” Ogni passaggio sulle onde di una vita sempre all’insegna di un prepotente romanticismo da battaglia, che contamina ogni cosa e persona che sfiora, da fare infine di Maria Manetti un vero faro femminile di ispirazione e motivazione per ogni generazione del presente e dell’avvenire, riunendo insieme bellezza e determinazione, eleganza e amore, umiltà e coraggio, persistenza e generosità. Perché come risuona il mantra di Maria: “duro lavoro, onestà e passione fanno la differenza.”
Gli anni ‘70: il passaggio dalla Toscana alla San Francisco Bay Area
A cavallo del 1971 e il 1973, la vita di Maria si sposta dalla stabilità del paradiso collinare della campagna di Montefili nel Chianti, dove conduce una vita agiata da alto-borghese, simil-aristocratica, alla mobilità col salto migratorio verso il Pacifico sulle colline della San Francisco Bay Area: “cucinando per una comune a Berkeley” – come racconta Maria, sottolineando la centralità delle giustapposizioni nella sua vita –, "dove preparavo sofisticati piatti italiani su un improvvisato cucinino a due fornelli sopra uno scaffale del bagno, scolando gli spaghetti nel gabinetto, e lavando i piatti nella vasca”; ripartendo dunque da zero: animata solo dal “sacro fuoco” dell’amore per “osare altrove alla ricerca della felicità.”
Sostanzialmente la sua è una parabola di vita e di professione, che al confronto anche quella esemplare di Steve Jobs, defenestrato dalla sua stessa azienda per ricominciare daccapo, risulterebbe persino minore e pallida, considerando anche che le scelte di Maria sono quelle di una donna, con tutto quello che questo implica alla vigilia degli anni ‘70, mettendo insieme ingredienti alla nitroglicerina, come: un divorzio da un testimone di Geova nell’Italia cattolica dell’epoca; un’emigrazione senza soldi sul filo dell’illegalità in USA, con traversate transatlantiche repentine e maratone “coast-to-coast” per realizzare una trama dell’impossibile tra NYC, Santo Domingo, il Nevada e la California; fino a riunirsi nell’abbraccio di un nuovo matrimonio fra le braccia dell’amato Farrow.
“Incipit Vita Nova”, per dirla con un altro gemelli come Maria, e illustre “toscanaccio” esperto in materia di amore, quale Dante Alighieri. Maria comincia a lavorare da Gucci a San Francisco presso il “department store” dei Magnin — ancora un segno del destino coniugato con la nascita del Made in Italy, visto che proprio i buyers di questa famiglia erano stati invitati nella prima storica sfilata ideata da Giorgini nel dopoguerra a Firenze. Maria scala rapidamente dentro il dipartimento di Gucci, sfondando ogni soffitto di cristallo, mirando in alto, fino a proporre verso la fine degli anni ‘70 ad Aldo Gucci in persona un ambizioso piano quinquennale per fare definitivamente decollare Gucci in esclusiva negli Stati Uniti d’America.
Gli anni ‘80 in California e l’inizio degli anni ‘90: acme del successo e fine di un’altra parabola
Nasce la Manetti Farrow Inc. che si posiziona fino alla fine degli anni ‘80 come la piattaforma numero uno nella moda per vincere negli Stati Uniti e scalare nel globo. Anche Cartier, Ferragamo e Fendi si mettono in fila per avere i servizi della Manetti-Farrow. Intanto arriva il 1990 con una pesante ondata di recessione che falcidierà pesantemente l’industria della moda. Maria ha però seguito il suo istinto, ancora una volta, vendendo 6 mesi prima la sua azienda di moda. Nel 1992 si completerà anche il dolorosissimo processo di divorzio da Farrow, dovendo ora anche imparare di gran corsa a saper gestire i propri asset, e a trovare una ragione per rinascere.
“Dal 1989 al 1996 sono stati i peggiori anni di tutta la mia vita, avendo perso il più grande amore della mia vita.” Sono però anche gli anni della scoperta del “distacco” nella vita da ogni cosa, dell’incontro con il buddismo e dei ritiri nelle montagne. Comincia così la sua attività di filantropo e mecenate dell’arte: “mi sono detta, Michelangelo e Raffaello erano contemporanei del loro tempo, così nel 2000 mi sono unita al SFMoMA e ho iniziato a viaggiare con loro, questo ha cominciato ad aprirmi gli occhi.” Si associa anche al FAI per “promuovere in concreto una cultura di rispetto della natura, dell’arte, della storia e delle tradizioni d’Italia — secondo la dichiarazione ufficiale della Fondazione — e tutelare un patrimonio che è parte fondamentale delle nostre radici e della nostra identità.” Maria così coinvolge anche altri suoi amici facoltosi, “Italofili”,amanti della musica classica, delle belle arti, e soprattutto innamorati del “Bel Paese.” Sua mentor per l’arte contemporanea è una delle più grandi collezioniste di video-arte al mondo, Pamela Kramlich, la quale ama di Maria “semplicemente il suo eccezionale e contagioso entusiasmo. Quando lei si interessa veramente a qualcosa, scava nella materia con intelligenza e profondità, facendo accadere le cose, e alla fine le realizza.” Al settimo piano del rinnovato MoMA di San Francisco si può avere un assaggio di questo nuovo connubio e della passione veramente unica per l’arte contemporanea delle due coppie di amici quali i Manetti Shrem e Pamela e Dick Kramlich.
Jan Shrem: la sua vita
Le congiunture stellari, quando c’è l’amore, sono tali da riverberarsi sulla polvere umana in cammino sulla terra, e farla brillare anche quando il cielo sembra più buio. "Jan si impone nel suo silenzio." Come un Rubens all'opera per un ritratto, una superlativa Sophia Loren presenta così Jan Shrem. All'essenza delle profumate parole dell'"imperatrice di Napoli nel mondo" su Jan Shrem, fa eco la definizione di autentico romanticismo tedesco, alla Winckelmann, espressa qualche settimana fa a Gerusalemme dall'uomo più ricco di Israele, Eitan Wertheimer: "Jan per me è un vulcano silenzioso: quando arriva la sua saggezza, arriva in un modo gigantesco."
Dall'infanzia tra Sud-America e Medio-Oriente alla maturità negli Stati Uniti d'America
Jan Shrem, dal canto suo, si potrebbe effettivamente definire come un uomo da un altro pianeta, visto che lo connatura sin da bambino una vita da viaggiatore, poliglotta e infine cittadino del mondo. Infatti, nasce in Colombia da genitori ebrei di Beirut, fa ritorno a 2 anni con la mamma in Medio-Oriente, abitando in Israele fino ai 9, e poi di nuovo in Colombia fino ai 16 quando parte alla volta degli Stati Uniti d’America per completare i suoi studi superiori e universitari a New York e più tardi a Los Angeles. Da lì, dove comincia una brillante carriera di venditore di enciclopedie porta a porta, in lungo e in largo per gli Stati Uniti, Hawaii inclusi, fonda un’azienda di editoria internazionale di libri, finendo per fare la sua fortuna in Oriente, mentre insegue l’amore: la sua fidanzata giapponese che aveva incontrato all’UCLA.
Ex Oriente Amor: l’Amore e il Giappone tra anni ‘50 e anni ‘60
In Giappone, Jan è l’uomo giusto al momento giusto. Si ritrova, infatti, a distribuire in tutta la nazione libri di referenza tecnica tradotti in inglese, dal momento che dall’800 fino ancora al dopoguerra nel Paese del Sol Levante la seconda lingua di referenza era il tedesco. Il Giappone è anche il paese dove affina la passione per l’architettura e dove entra in contatto con il Buddismo Zen, cominciando a frequentare un tempio sulle colline di Kyoto. Nel ‘68 quando vende la sua azienda giapponese per tornare in Europa, ha “un’organizzazione di grande successo con 50 uffici e 2.000 impiegati sparsi in ogni angolo del Giappone.”
L'Europa: gli anni '70
Nemmeno ancora quarantenne torna in Europa, vivendo tra Parigi, Lugano dove sposa Mitsuko, che dagli ‘60 era stata la prima impiegata nella sua galleria d’arte a Tokyo. “Una donna giapponese mi aveva portato in Giappone (quella di cui mi ero innamorato alla UCLA, e i cui genitori non mi avevano mai permesso di sposare) e un’altra mi aveva portato via dal Giappone” — Come ama ricordare il signor Shrem con una delle sue “giustapposizioni della vita.” Comincia dunque a collezionare arte, studiando contemporaneamente produzione di vino al'università di Bordeaux. Soggiorna per un paio di anni a Milano, dove prova a entrare in affari con Fabbri Editori, potendo anche visitare più spesso parte della sua famiglia in Israele. Frequentando le gallerie della Rive Gauche di Parigi agli inizi degli anni ‘70, Jan Shrem diventa amico dell’artista cileno, Roberto Matta. Incontra artisti come Francis Bacon, della cui pittura apprezza subito molto il “carattere perturbante con cui l’arte deve scioccare, o non serve a nulla”. Quasi un secolo dopo Jan Shrem alla pari di un Konrad Fiedler respira l’arte come esperienza diretta, diventando amico di artisti e, frequentandone gli atelier; capendo sempre di più di arte e dei processi creativi che la sottendono, vale a dire non di teorie e critiche, ma di poiesis: cioè di come si fa e si costruisce un'opera capace di resistere al tempo. Comprendendo così in pieno quello che meglio scrisse Paul Klee – l’artista par excellence, secondo Fiedler –, liberando l’arte dalla definizione di Platone in quanto atto di mera imitazione, e cioè che: “l’arte non riproduce il visibile, rende visibile.”
La California, Napa Valley: gli anni '80
Più tardi Jan si sposta in California, precisamente a Calistoga in Napa Valley, dove nel 1986 fonda la cantina Clos Pegase. Insieme a quella dell’amico Robert Mondavi, la sua tenuta (Clos in Francese) rappresenta una delle due colonne principali a contribuire alla costruzione del brand di enologia internazionale che la Valle di Napa va assumendo da quel momento in avanti. “Clos Pegase – come spiega il signor Shrem – fu la prima cantina di Napa Valley realizzata attraverso una gara di design in collaborazione con il SFMoMA.” Creata dall’amore primordiale di Jan per l’architettura: “presentava una struttura palladiana contemporanea di Michael Graves" – come racconta il signor Shrem –, "ed era certamente molto di più che una semplice cantina.” La proprietà ospitava un teatro sotterraneo di musica, e divenne uno spazio espositivo per una collezione privata internazionale pressoché unica, annoverando più di mille pezzi tra quadri e sculture a firma di: Francis Bacon, Pablo Picasso, Salvador Dali, Jean Dubuffet, Lucio Fontana, Henry Moore, Anthony Caro, Robert Morris, William Tucker, Tony Cragg, Sandro Chia, Mimmo Paladino etc.
La filantropia: scintilla d’amore tra Maria Manetti e Jan Shrem
Quando il MoMA di San Francisco chiede nel 2010 a Maria Manetti di organizzare un lunch per radunare filantropi e mecenati in vista dell’ampliamento del nuovo museo, nella ristrettissima lista degli invitati della sua incantevole casa estiva, Villa Mille Rose, ad Oakville in Napa Valley, c’è anche il proprietario della raffinatissima cantina, Clos Pegase.
Jan Shrem e Maria Manetti non erano completi sconosciuti; si erano già incontrati molto tempo prima in occasione sempre di un evento di beneficienza per il Napa Valley Festival del Sole. Ma ora il signor Shrem – vedovo per la scomparsa della sua amata moglie, Mitsuko, con la quale ha vissuto 50 anni –, tornando a sorridere, osserva Maria in modo particolarmente speciale: come colpito da un magico strale della faretra del crudele e imprevedibile Cupido.
“Quella sera Jan fu l’ultimo dei 24 ospiti a lasciare casa mia” — come ricorda la stessa Maria — “Dieci giorni dopo eravamo uno di fronte all’altro per una ‘cena amichevole’, che lui aveva insistito accettassi, con una telefonata di ringraziamento il giorno dopo.” Era di fatto iniziato un corteggiamento d’amore antico da parte di questo gentiluomo, che nel 2012 si completerà con l’unione in matrimonio nella San Francisco City Hall, il giorno di San Valentino. Nasce così quella coppia eccezionale di filantropi purosangue e ineguagliabili mecenati dell’arte, quale i Manetti-Shrem.
Margrit Mondavi definì il matrimonio tra i suoi due carissimi amici: “Una combinazione del tutto naturale tra Maria e Jan, visto il coinvolgimento di entrambi nell’arte, le meravigliose lezioni di Jan, la sua collezione, il suo apprezzamento per l’arte e la bellezza.”
Nel 2013 Jan vende la Clos Pegase, per meglio continuare a supportare l’arte e la musica, i talenti e le loro idee, sempre con Maria, come canta un brano a loro dedicato: “Two hearts blown by the wind / Swirling around that finally found each other.” Due cuori soffiati dal vento / girando in vortice, che finalmente si sono trovati.
La Certezza dell’Infelicità per l’Incertezza della Felicità — Le ragioni di un emigrante
Sono almeno venti anni che in Italia sui giornali e la televisione si parla di “fuga dei cervelli.” E sono certo che ci sarà qualcuno che potrà sempre dimostrare che il termine sia stato coniato anche molto tempo prima, o che sia un bene o un male in esponenziale peggioramento, ma la partita non è questa. Piuttosto si tratta di realizzare che, mai come ora, il fenomeno per cui a lasciare il Paese sono sempre più quelli con alta formazione (laurea e master e dottorato) ed eccellenti qualità intellettuali e tecniche, e soprattutto capacità di sognare, ha preso indubbiamente le connotazioni di un vero e proprio “esodo.”
Non provenienti da cosiddetti “paesi in via di sviluppo”, li chiamano con un anglicismo eufemistico di moda, “expats”, cioè espatriati, ma pur sempre di emigranti si tratta. Sì, il Bel Paese — che per sua natura geografica è un porto di attracco naturale nel cuore burocratico dell’arida e rigida Europa — perde la sua meglio gioventù al ritmo delle onde del Mediterraneo, mentre cerca di gestire i flussi di profughi ed emigranti creati dalle guerre in Africa e in Medio-Oriente. Stiamo parlando di quel Mare Nostrum di cultura millenaria, che sguazza ancora alla ricerca di un’identità tra sacro bacino per la pace dei popoli – come voleva il leggendario sindaco di Firenze, il pozzallese Giorgio La Pira –, e un infernale pantano di sangue, dove quotidianamente si assiste alla vergogna della modernità democratica per eccellenza: l’incapacità a gestire flussi di paura e di desiderio umano.
Negli ultimi 25 anni in materia di emigrazione degli italiani all’estero ho ascoltato poeti, imprenditori, avventurieri, politici, artisti, economisti e teorici di ogni genere – ognuno con una spiegazione personale più o meno condivisibile – ma nessuno ha mai saputo esprimere meglio di Maria Manetti Shrem perché un italiano, quando lascia la propria terra (probabilmente persino più difficile rispetto a chiunque altro, visto il luogo eccezionale per biodiversità da cui si proviene), fa una scelta ben precisa, come lei quando lasciò le colline del Chianti per quelle di Berkeley: “alla certezza dell’infelicità ho preferito l’incertezza della felicità. Il rituale della domenica italiana con tutta la famiglia a tavola, per le onde del destino: viva e libera di osare.”