Marilyn Monroe diva grazie (anche) al suo autismo
In un libro, gli psichiatri Lilliana Dell'Osso e Riccardo Dalle Luche analizzano la patologia dell'attrice che l'avrebbe aiutata a diventare un'icona
Nessuno aveva mai avanzato l’ipotesi che Marilyn Monroe sia diventata un’intramontabile icona mondiale non tanto (o non solo) per il suo fascino, ma a causa del suo "assetto psicologico": un autismo di base.
Secondo questa teoria, Norma Gean sarebbe stata affetta da una patologia che, nel corso della vita, ha decretato anche la sua rovina, innescando un percorso morboso e insieme inarrestabile, almeno utilizzando le armi che erano disponibili nei primissimi anni Sessanta.
A lanciare la teoria sono due psichiatri della "scuola pisana", Lilliana Dell'Osso e Riccardo Dalle Luche, nel saggio L'altra Marilyn: psichiatria e psicoanalisi di un cold case (Le lettere editore, 292 pagine, 21 euro).
Il libro, che non per nulla ha in copertina una delle famose, splendide foto scattate nel 1962 da Bert Stern e che furono rifiutate dall'attrice, prende le mosse dalla minuziosa ricostruzione della psicopatologia autodistruttiva di Norma/Marilyn. Ma corre in più direzioni: i pericoli degli interventi psicoterapeutici subìti; il parallelismo tra la psicopatologia del doppio, della maschera e della personalità multipla e il mestiere dell’attore; il doppio volto del perfezionismo, qualità essenziale per il conseguimento del successo e della consacrazione come icona collettiva, ma anche fattore di grave rischio psicopatologico.
Su Marilyn, indubbiamente, molto è stato scritto e detto. Solo in lingua inglese si contano oltre 60 biografie, più 40 tra documentari e film, 20 pièce teatrali, una dozzina di articoli accademici, almeno dieci racconti, due monografie psichiatriche, due musical, un balletto, un’opera e una canzone di Elton John.
C'è poi un filone di indagini ancora aperte sulle cause della sua morte. Negli anni Novanta hanno avuto al centro l'ipotesi del “probabile suicidio”, ma hanno spaziato dalle possibili implicazioni della mafia e dei fratelli Kennedy, a quelle dei medici e in particolare del suo psicoanalista, che fu l’ultimo a vederla viva e il primo a vederla morta. Negli ultimi anni, invece, è stata piuttosto la ricerca delle motivazioni di ordine psichiatrico a tenere desto l’interesse biografico su Marilyn.
Dal 2000 a oggi sono state pubblicate cinque “psicobiografie” finalizzate principalmente alla comprensione della breve e non felice vita dell'attrice come conseguenza di una grave psicopatologia e di trattamenti medici e psicologici che, oltre a non essere stati efficaci, la resero sicuramente dipendente.
Questo di Dell'Osso e Dalle Luche è però il primo saggio che scava in profondità (e con un'ottima scrittura) su un doppio binario: da una parte analizza gli effettivi disturbi mentali dell'attrice. Dall'altro cerca di comprendere come la scomparsa di una celebrità dalla vita travagliata, o comunque contaminata dal fantasma dell’autodistruttività, agisca sulla coscienza collettiva.
Come scrivono i due autori, spesso accade che "una morte prematura, magari in circostanze misteriose, non si esaurisce con una fisiologica reazione di lutto, ma si complica per una sorta di impossibilità o rifiuto a dimenticare". Insomma, diventa quasi patologia di massa: che si “cronicizza”, amplificandosi e sopravvivendo nella sfera eterna del mito. Tanto che Dell'Osso e Dalle Luche concludono che "i processi di iconizzazione di molte celebrità popolari moderne è mediato in qualche modo, paradossalmente, dal loro disturbo mentale".