Mario Mori: «L'arresto di Matteo Messina Denaro frutto di un lavoro di un team dedicato»
L'ex comandante dei Ros, che catturo Totò Riina, spiega come mai ci siano voluti 30 anni per catturare il latitante numero 1 di Cosa Nostra
Finalmente possiamo mettere la parola «fine» alla saga di Cosa Nostra. Anche l’ultima primula rossa della mafia siciliana, Matteo Messina Denaro, è stata assicurata alla giustizia dal Ros dei carabinienei.
Appena ieri, trentesimo anniversario della cattura di Riina, l’uomo che permise di arrestarlo, ovvero il generale Mario Mori, aveva commentato la ricorrenza storica con queste parole: «L’arresto di Riina per lo Stato ha rappresentato l’inizio della fine di Cosa Nostra operativa, che da quel momento non ha più avuto quell'input drammatico che la connotazione psicologica che una belva come Riina gli aveva dato. È sicuramente, quindi, uno iato nella storia di cosa nostra», aveva detto il capo del Ros e in seguito direttore del Sisde all’AdnKronos.
Oggi, per Panorama, Mario Mori riflette sulla non meno clamorosa cattura, durata però un tempo lunghissimo: «Quando decidemmo di predisporre un’operazione contro Riina, ci mettemmo appena cinque mesi. Iniziammo nell’agosto del 1992 e a gennaio del 1993 lo prendemmo. Sa perché? Il problema è che bisogna creare una struttura dedicata espressamente a questo, e gente che sia in grado di portarla avanti. Ma soprattutto – vorrei lo si capisse una volta per tutte – il punto è che ci vuole un’Arma dei Carabinieri o una Polizia di Stato che si prendano l’onere di dire: “Io a questa struttura dedicata non chiedo niente fino a che non me l’hanno arrestato”. È tutto lì. Mi sembra di fare un discorso da reduce, ma io ho avuto il coraggio di farlo nonostante i miei superiori, anche se riconosco che non sempre è possibile. E i risultati sono arrivati in fretta».
Perché invece ci sono voluti trent’anni esatti per acciuffare Messina Denaro?
«Si è andati avanti con le ricerche dell’appuntato, le indagini del tenente e il lavoro del capitano, con il commissario che orecchia ma magari poi viene trasferito, con un altro comandante o un questore che subentrano in corso d’opera e devono ricominciare daccapo, eccetera. Ma questa è ordinaria amministrazione e, per quanto valida, non ci si può aspettare da essa risultati diversi o tempi relativamente brevi. La territoriale, intesa sia come Polizia sia come Carabinieri, agisce in questo modo e, dunque, facendo questo tipo di lavoro può raggiungere risultati limitati e parziali».
Cosa serve, invece?
«Quando si è di fronte a fenomeni criminali di gravità assoluta, quando si ha davanti un ambiente refrattario e che protegge a ogni costo, la sfida può essere affrontata solo con una struttura ad hoc, come i Ros appunto: venti o trenta persone che cercano esclusivamente Matteo Messina Denaro. Se si dedica un gruppo di persone a lavorare senza condizionamenti e si dà loro un obiettivo preciso, si ottiene senz’altro il risultato. Può durare qualche mese in più o in meno, dipenderà dalla fortuna e dalle circostanze. Ma presto o tardi ci si arriva. Diversamente, ci si deve affidare alla buona volontà e a tempi dilatati».
Ma chi proteggeva Messina Denaro oggi? Godeva di una rete articolata di sostenitori, di soldati pronti a tutto per lui? E poi quella data: esattamente trent’anni dopo Riina cade l’ultimo boss…
«La storia si diverte ogni tanto, ma quanto alla data si tratta puramente di un caso. Il comandante del Ros o chiunque altro si sia dedicato alla faccenda in tutto questo tempo, appena avesse potuto lo avrebbe subito arrestato senza indugi. Quanto al fatto che “contasse ancora qualcosa”, invece, non è esattamente così».
In che senso?
«Il problema è che ormai cosa nostra è una struttura disgregata, e non c’è più alcun tessuto connettivo che tenga insieme tutta la struttura. Di conseguenza, Messina Denaro era sicuramente in grave difficoltà da molto tempo. Chi lo ha protetto ha agito più che altro in un misto di riverenza, timore e ideologia contraria allo Stato come istituzione. Bisogna entrare nella testa di queste persone, molto particolari e insufflate di un certo tipo di mentalità criminale. Oggi non esiste più nulla di simile, però. È un residuo del passato. Ci possono essere senz’altro atteggiamenti e condizionamenti di tipo mafioso, ma sono frutto di singole realtà. Non c’è più una struttura che coordina il tutto, questo è accertato. E ci rassicura. Con buona pace di chi la pensa diversamente».