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Ansa
Economia

Auto green, il mercato non le vuole. L'Unione Europea invece sì

Le vetture a pila vendono sempre meno. Il mercato è in panne e il nostro Paese chiede di rinviare lo stop ai motori endotermici fissato al 2035. Da Fca a Vw, il grido d’allarme del settore è forte, ma Von der Leyen paga l’intesa coi Verdi.

È il viaggio della speranza quello di Adolfo Urso, il ministro del made in Italy a Bruxelles - dal 25 settembre – per chiedere di anticipare alle prossime settimane la verifica di fattibilità dello stop ai motori endotermici nel 2035. E magari rinviare questa data. Ci deve essere però una certa antipatia dell’amministratore delegato di Stellantis, il gruppo che comprende anche ciò che resta di Fiat, perché il lusitano Carlos Tavares ha fatto la voce grossa: «Un rinvio? Sarebbe follia». Lo fa per distinguersi dai concorrenti o forse perché, diventato concessionario dei cinesi della Leapmotor, non vuol perdere l’affare. È uno strano destino quello del gruppo che si vantava di fare le auto più belle del mondo e che si riduce a vendere quelle degli altri. Ma le contraddizioni di Tavares, e del suo dante causa John Elkann, non s’arrestano qui. Tra i costruttori europei sono i soli a tifare per i limiti imposti.

Tavares, parlando a Mirafiori dove ha annunciato l’ennesima cassa integrazione - dicendo però che non farà come Volkswagen che minaccia licenziamenti perché lui ci ha pensato prima - si è permesso anche una battuta: forse il cambiamento climatico è sparito? Resiste sull’elettrico, ma chiude Mirafiori perché la Fiat 500 a pila non si vende, così come le Maserati, e se fa una po’ di conti si rende conto del suo «fallimento» italiano. Fca – la fusione tra Fiat e Chrysler - aveva con Sergio Marchionne 74 mila dipendenti, oggi Stellantis col duo Tavares-Elkann ne ha meno di 42 mila, ma la metà sono in cassa. E della gigafactory che doveva costruire le batterie per le Fiat non se ne parla più. L’iniziativa del ministro Urso è invece incoraggiata dalla Confindustria che con il presidente Emanuele Orsini ha richiamato sui gravissimi rischi che sta correndo il comparto della componentistica.

Si stima che siano a rischio 70 mila posti di lavoro e almeno 2.200 aziende. Con l’Italia si stanno schierando altri Paesi: la Germania incalzata dai costruttori, la Spagna anche se lì stanno per aprire fabbriche di marchi cinesi, la Polonia che è oggi l’officina d’Europa. La paura che hanno tutti – Tavares ha invitato chi fa componentistica a trasferirsi per abbattere i costi del 40 per cento pena essere fuori mercato rispetto agli asiatici – è che le fabbriche si spostino in Tunisia, in Marocco, in Turchia dove Recep Tayyip Erdogan sta preparando un maxi piano di agevolazioni fiscali. L’Europa al contrario impone diktat ecologici, ma non dà un soldo.

L’auto elettrica è stata ampiamente sussidiata con gli incentivi – Stellantis ne vorrebbe a pioggia e senza soluzione di continuità – ma appena si sono esauriti la domanda si è piantata di nuovo. Per gli Stati è un pessimo affare: devono dare gli incentivi all’acquisto, alle colonnine e alle energie rinnovabili per alimentarle e non incassano le accise sui carburanti. Da qui l’idea italiana di fermare la giostra. Il regolamento sullo stop ai motori endotermici - ratificato nel marzo 2023 col voto contrario della Polonia e l’astensione di Italia, Romania e Bulgaria - prevede solo per il prossimo una verifica delle compatibilità per l’abbandono di diesel e benzina. Ma i dati sono drammatici già adesso. Nei primi sei mesi dell’anno si è avuto un incremento delle immatricolazioni del 4,4 per cento, ma a luglio l’aumento è stato appena dello 0,4 per cento; a paragone del 2019 – anno pre- pandemico – manca il 22,9 per cento di macchine. La frenata è tutta sulle auto a pila passate dal 14,3 per cento del mercato al 13,8. Ad agosto – sempre a livello continentale – le vendite di full electric sono crollate del 36 per cento contro il -16,5 delle endotermiche.

Ursula von der Leyen nel suo discorso per il bis della presidenza della Commissione nel pagare dazio al sostegno dei Verdi ha confermato tutti gli obiettivi del Green deal, auto comprese. Solo che l’industria è in panne. Il capo dell’ufficio studi di Deutsche Bank Eric Heymann lo aveva profetizzato: si perderanno 840 mila posti di lavoro. Volkswagen ha annunciato che chiuderà tre stabilimenti: deve licenziare 15 mila operai entro l’anno perché non vende più veicoli a batteria. Ha perso mezzo milione di auto vendute. Audi si appresta a fermare la storica fabbrica in Belgio e i lavoratori per protesta hanno sequestrato le chiavi di 200 macchine come gesto simbolico, mentre Volvo – di proprietà cinese – sta abbandonando il programma full elecritic dirottando gli investimenti sulle ibride. Hanno capito che l’incertezza sui rifornimenti, il costo elevato d’acquisto e di gestione sono barriere psicologiche difficilmente superabili per i consumatori. Bmw ha dovuto richiamare un milione e mezzo di auto per difetti ai freni, ma anche 140 mila Mini Cooper SE a totale propulsione elettrica perché le batterie s’incendiano.

È evidente che l’Europa ha deliberato sull’onda di una spinta ideologica irrealistica, ma non ha dato tempo ai costruttori di perfezionare i modelli, non ha pensato a dotarsi di fabbriche di batterie, non ha terre rare per produrre gli accumulatori e, soprattutto, ha sottovalutato il gap infrastrutturale. Per soddisfare la domanda di mobilità con auto elettriche servono almeno 3,5 milioni di colonnine di ricarica entro il 2030. Al momento in Europa ce ne sono 630 mila, di cui il 70 per cento concentrate in Germania, Olanda e Francia. Per raggiungere il target si dovrebbero installare 410 mila colonnine pubbliche all’anno con un ritmo di 8 mila a settimana. Fino al mese scorso la «velocità» era sotto le 3 mila nuove stazioni di ricarica a settimana. Il giudizio di Gian Primo Quagliano, presidente del centro studi Promotor, uno dei più autorevoli osservatori mondiali sull’automotive, è quasi una sentenza: «Una parte importante della responsabilità dell’attuale crisi va ricercata nella politica della Ue che ha imposto pesanti investimenti all’industria automobilistica dell’area e che in presenza di uno scarso interesse da parte del pubblico per l’auto elettrica ha determinato la necessità per gli Stati di sostenerne la domanda con incentivi rilevanti. Si sono create, inoltre, le condizioni per una forte penetrazione nel mercato dell’Ue di auto elettriche cinesi». Ma ora siamo al punto che anche i cinesi non vendono più. I numeri sono impietosi: Byd meno 89 per cento e meno 38 da inizio anno, Great Wall sulla stessa linea, MG meno 76 per cento anche se da gennaio ha recuperato un più 14 per cento.

Malissimo anche il mercato delle supercar a batteria: la Porsche Taycan ha fatto meno 51 per cento rispetto al primo semestre dello scorso anno e sulla Macan elettrica ci sono già dei ripensamenti. E anche in America non va meglio: Ford e General Motors hanno sforbiciato le proprie ambizioni elettriche e raddoppiato la produzione di automobili e pick-up a gasolio e la Hertz, principale società di noleggio del mondo, ha svenduto tutta la flotta elettrica per mancanza di domanda. Da qui un’altra richiesta che viene in Europa dai costruttori riuniti in Acea (i due principali sono Volkswagen e Renault): far slittare i limiti di produzione di auto diesel e benzina. Entro il 2025 secondo il regolamento europeo si deve arrivare a produrre oltre il 35 per cento di auto a pila. Se un costruttore non arriva al target, paga la multa. Acea ha stimato attualmente in 15 miliardi di euro il costo di questo nuovo balzello che farebbe saltare per aria persino Volkswagen (e il cancelliere tedesco Olaf Scholz è preoccupatissimo) e sa perfettamente che senza una domanda solida è impossibile arrivare a quel livello di produzione di auto a batteria. Così spera che Bruxelles sposti di almeno due anni la soglia minima di macchine a pila, nonostante Tavares dica che non si possono cambiare in corsa le regole perché Stellantis è già pronta alla sfida. Per la verità non si è capito bene se è pronta perché produce meno o perché spera di vendere di più. Ma tant’è, pare evidente che l’auto elettrica non sta in strada: tutti ne chiedono lo slittamento.

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Carlo Cambi

Toscano di nascita e di formazione (economico-giuridica) diventa giornalista professionista a 23 anni. Percorre tutto il cursus honorum a Repubblica fino a dirigere le pagine di economia. Nel 1997 fonda I Viaggi di Repubblica - primo e unico settimanale di turismo - che dirige fino al 2005 quando sceglie di vivere a Macerata insegnando marketing del territorio e incontra Maurizio Belpietro col quale stabilisce un sodalizio umano e professionale. Autore radiofonico e televisivo continua a occuparsi di economia ed enogastronomia. Ha scritto una trentina di libri. Il suo best seller? Il Mangiarozzo.

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