Moda o marketing?
Le nuove dinamiche del sistema lasciano dubbi e perplessità sul vero concetto di creatività
Un tempo scrivere di moda significava raccontare di un mondo fantastico e dorato, conosciuto dai pochi perché roba per pochi.
Narrazioni di stile e di eleganza, di forme e di tessuti, di colori e di ricami, storie riservate a una élite ristretta perché la moda simboleggiava anche uno status sociale. Artefici di questo mondo patinato erano i couturier, personaggi unici e visionari, quasi degli eletti, che grazie alla loro creatività e all’expertise artigianale, a volte autodidatta altre appresa dai Maestri precedenti, davano vita a creazioni uniche dettando tendenze di moda che quasi sempre andavano di pari passo con gli eventi storici e con i cambiamenti culturali.
È un dato di fatto che da sempre la moda è un organismo in continua evoluzione e che necessita di rinnovarsi, nei contenuti così come nelle dinamiche di sistema, è un istinto di sopravvivenza. Ed è così che, con l’avvento degli anni Sessanta e Settanta, l’evoluzione diventa rivoluzione, la moda viene per così dire sdoganata e da sistema elitario si trasforma in fenomeno popolare.
Nasce il pret-a-porter, la moda a disposizione di tutti e i couturier lasciano spazio a una nuova figura professionale, lo stilista, un creativo pur sempre visionario ma in grado di pensare a una moda che possa raggiungere un ampio raggio di clientela, una moda adatta a tutti i giorni e non esclusivamente alle occasioni speciali o mondane.
È definitivamente iniziata l’era del «business della moda».
Le aziende promuovono le proprie collezioni, le pubblicità sulle pagine dei giornali creano il desiderio nella mente dei lettori in un momento di pieno fenomeno consumistico. Malgrado ciò la moda continua comunque a mantenere un alto valore creativo anzi, gli anni Ottanta e Novanta, gli anni dell’edonismo e dell’anti-edonismo, hanno dato esempio di una moda eclettica, sperimentale, avanguardista.
Da qui il seguito dell’evoluzione dell’organismo moda lascia molte perplessità, almeno per quanto mi riguarda. Dagli anni 2000 in poi, i famosi Y2K, le dinamiche conosciute scompaiono per far spazio a nuovi sistemi creativi e soprattutto commerciali. Era digitale, globalizzazione, Millennial e Gen Z contribuiscono decisamente alla rivoluzione socio-culturale che stiamo vivendo, un percorso evolutivo imprescindibile. Ma nel mondo della moda cosa sta succedendo?
Gli ultimi decenni dimostrano un'evidente carenza di creatività, lo stile parla piuttosto di contaminazioni, collaborazioni, rielaborazioni dello storico.
Pioniere del fenomeno delle collaborazioni sono state grandi aziende del lusso, da Comme des Garçons a Louis Vuitton, da Adidas a Nike, che per prime hanno intuito il successo delle collaborazioni tra brand dal diverso DNA o tra brand e artisti. Per non parlare di H&M che per anni ha incrementato i propri fatturati grazie alle capsule collection create stagione dopo stagione con i più grandi nomi della moda.
La figura dello stilista è scomparsa, i nuovi racconti di stile vengono dettati da direttori creativi, consulenti, stylist o addirittura buyer autorevoli. La moda non sembra più essere uno spirito libero e naïf ma piuttosto il frutto di strategie commerciali studiate a tavolino.
Sulla scia di collezioni promosse attraverso testimonial famosi e celebrity internazionali quando va bene, nel peggiore dei casi da influencer, l’ultimo paradosso è quello delle collezioni “disegnate” a quattro mani, quelle del direttore creativo/designer e quelle di una celebrity.
Alessandro Michele scelse Harry Styles da Gucci per creare “HA HA HA”, ora Donatella Versace si affida a Dua Lipa per disegnare «La Spiaggia», una capsule collection di beachwear. Calvin Klein si è affidata alla cantante/icona coreana Jennie per un’edizione limitata.
Capisco il marketing, ma quale tipo di credibilità dovremmo prestare a collezioni disegnate da personaggi che a loro volta si affidano a importanti stylist per definire il proprio look?