Modi vince le elezioni in India con nubi dense all'orizzonte (per lui)
L'ex premier ottiene la riconferma ma avrebbe perso la maggioranza assoluta. E questo cambia le cose
Le più grandi elezioni democratiche della Storia si sono concluse oggi in India, con il risultato atteso della conferma (per ora, solo a colpi di agenzia) di Narendra Modi quale premier della più popolosa nazione al mondo, per la terza volta consecutiva.
Tuttavia, sono già apparse alcune ombre all’orizzonte: i primi risultati delle elezioni generali indicano che il Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro in carica potrebbe non raggiungere una maggioranza assoluta e, per tale ragione, potrebbe dover dipendere da una lunga serie di alleati (sia pure di lunga data) per formare un governo. Il che non significa ingovernabilità, ma certo neanche unanimità.
Prima dello spoglio dei voti, Modi e il BJP speravano in una vittoria a valanga che consentisse loro di raggiungere i 400 seggi nella Camera bassa del Parlamento (su un totale di 543 seggi). Una volta iniziato il conteggio dei voti, invece, è apparso chiaro che l’alleanza dei partiti di opposizione stava ottenendo performance migliori di quanto previsto da loro stessi. Forse anche per questa ragione, Narendra Modi ha con urgenza rivendicato una vittoria «storica» in un breve post su X (già Twitter), nonostante il conteggio dei voti non sia ancora chiuso e benché i risultati completi - attesi nelle prossime ore – potrebbero ridimensionare la portata «storica» del voto indiano.
Questo, in breve, impedirebbe a Modi e al BJP di cambiare la Costituzione, come stimato in un primo momento dall’élite di governo. Per i non indù, questa constatazione numerica sarebbe una notizia importante, visto che le minoranze religiose temono più di ogni altra cosa l’avanzare di un movimento nazionalista induista, a scapito tanto dei musulmani quanto (in misura assai minore) per i cristiani. In India, infatti, circa l’80% della popolazione è induista, mentre «solo» il 14% è di fede islamica, e il 2% sono cristiani.
Anche sulla base di queste statistiche, il premier e il suo partito hanno fatto sempre più ricorso a un linguaggio apertamente islamofobico, prima e durante la campagna elettorale. In particolare, il Modi del 2024 si è spinto dove non aveva mai osato, proclamandosi implicitamente quale garante politico di «una nuova spiritualità indù» finalmente orgogliosa di essere tale, e dicendosi pronto a rivendicare la forza di questa religione maggioritaria.
Rivendicazione indirizzata proprio contro le due grandi religioni monoteiste che – è bene ricordarlo – in momenti diversi, hanno occupato l’India in passato. Ora, se i cristiani in India sono assai poco numerosi (27 milioni), i musulmani (180 milioni) rappresentano invece una «minaccia» – anche armata – a detta degli induisti. Per questo, nell’agosto del 2019 Modi ha preteso la revoca dello statuto speciale del Kashmir – l’unico stato a maggioranza musulmana d’India, privato dell’autonomia relativa di cui ha goduto per settanta anni. E sempre per questo in quello stesso anno, il governo ha approvato un emendamento alla legge sulla cittadinanza, che ha concesso una via preferenziale a tutte le minoranze religiose residenti in India, a esclusione proprio di quella musulmana.
Quando nel dicembre 1992 una folla inferocita di induisti assaltò e distrusse Babri Masjid, cioè la moschea di Ayodhya, sorta nel XVI secolo al tempo dell’impero Moghul (1528-1857, che arrivò a rappresentare quasi un quarto del Pil mondiale nel suo momento di massimo splendore, vale a dire il XVII secolo), Narendra Modi e il suo partito BJP – allora all’opposizione – non condannarono in alcun modo l’episodio, poiché secondo la leggenda quello sarebbe il luogo dove nacque il dio Rama, venerato dal BJP. Secondo loro, la moschea «usurpava» il sito ed era giusto porvi rimedio.
Di certo, gli islamisti non hanno dimenticato: «Si tratta di uno degli episodi più rilevanti (e violenti) nella storica disputa tra induisti e islamici in India. Dal 1992 lì restano solo delle rovine, accompagnate dall’alternarsi di sentenze varie fino a quella appena citata, che nel 2019 approva la costruzione di un tempio induista. E così iniziano i lavori, sapientemente giunti a compimento nell’anno in cui Modi ottiene un nuovo mandato da capo del governo» scrive in proposito Roberto Arditti nel suo nuovo libro Rompere l’Assedio.
Ora, se da una parte quegli scontri si concluderanno con 2 mila morti e con il tramonto dell’India erede spirituale di Ghandi, dall’altra la tracotanza del premier lo ha portato proprio quest’anno a sottolineare l’importanza di quel gesto. Difatti, ricorda ancora Arditti, «il 22 gennaio 2024 il tempio viene inaugurato e, per essere degno della cerimonia, il premier Modi si nutre di sole noci di cocco per una settimana, dormendo su una stuoia a terra. Nel corso dell’evento, con le reti televisive indiane che organizzano dirette che durano ore e ore (ne esiste una versione su Youtube da 7 ore, 41 minuti e 40 secondi, che ha avuto oltre 1,7 milioni di visualizzazioni), il premier indossa il tradizionale kurti al ginocchio, comportandosi come una via di mezzo tra capo politico e leader spirituale. Anzi, se vogliamo dirla tutta, le movenze sono decisamente più di questo secondo tipo, così come l’intero impianto narrativo non tanto dell’evento in quanto tale, ma della partecipazione del medesimo Modi».
Non solo. Dieci anni dopo, nel 2002, nello stato del Gujarat vi furono violentissime rivolte anti-musulmane e veri e propri massacri su base settaria, che fecero oltre 1.000 morti. E chi era a quel tempo il governatore del Gujarat? Narendra Modi, che non fece alcunché per fermare le violenze.
Ecco, in sintesi, una delle possibili ragioni del mancato «trionfo» di Modi, nonostante l’importanza di aver agganciato la sua terza rielezione consecutiva. Adesso, secondo i primi risultati, il BJP dovrà fare affidamento sui singoli partner di coalizione per formare un governo, che includono decine di partiti per lo più di destra che ruotano intorno all’Alleanza Nazionale Democratica (NDA) di cui il BJP stesso fa parte, ma che hanno netti distinguo rispetto al modo di governare di Modi stesso; un fatto che potrebbe logorare nel tempo la forza negoziale che lo strapotere del partito di governo sinora aveva mantenuto intatta nella politica nazionale.
Una prima avvisaglia di quanto questo sia possa avverare, viene dalla Borsa: le azioni indiane oggi sono letteralmente crollate, proprio mentre lo spoglio suggeriva che il sogno di Modi di una vittoria schiacciante era compromesso. Si è trattato del peggior calo giornaliero per le azioni indiane dal 2020, un anno che tutti ricordiamo bene…
Ciò nonostante, va osservato che i seggi ottenuti dal partito di Narendra Modi furono 271 nel 2014, saliti a 303 nel 2019. Se adesso dovesse superare - come probabile – quest’ultima cifra, si tratterebbe comunque di un incremento che il premier potrà spendere in molte maniere. Considerato anche che l’età mediana dell’India è di soli 28 anni, enormemente inferiore a quella italiana (intorno ai 48) e soprattutto ben lontana dalla media della Cina (39 anni), suo grande antagonista nella geopolitica indo-pacifica. Inoltre, in confronto a quello cinese il tasso di fertilità in India è doppio, e dunque di «materiale umano» su cui lavorare per gli anni a venire certo non manca.
Se l’Europa come la Cina stanno diventando sempre più laiche, ecco che in India accade esattamente il contrario, nonostante la Costituzione divida chiaramente Stato e religione. Una divisione che, tuttavia, a New Dehli come visto non sembrano prendere troppo sul serio, visto che non schierarsi non rappresenta un’opzione.