Mogol: "Io, Lucio e le parole di oltre cento hit da classifica" - Intervista
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Mogol: "Io, Lucio e le parole di oltre cento hit da classifica" - Intervista

Un giorno con il più grande autore della musica italiana al Cet, la scuola dove si impara l'arte della canzone

In occasione dell'ottantesimo compleanno di Mogol, vi riproponiamo il nostro racconto realizzato al termine di una giornata speciale a casa del grande autore. Tra vita, ricordi, canzoni ed emozioni... Buona lettura!

Nell’imponente aula del Cet, la scuola di Mogol dove s’impara l’arte della parola in musica è tutto uno svolazzare di fogli zeppi di parole vergate dagli allievi del maestro. Lui legge tutto e valuta con il carisma e il mestiere di chi ha composto i testi di oltre cento canzoni andate ai vertici delle classifiche. «No, qui non si capisce niente. Non sento il pulsare della vita reale, c’è troppa astrazione». Oppure: «Ecco che cosa penso di una strofa che fa: lo so che quando sei con lei pensi a me. Mi viene ironicamente da dire: tu chiamale se vuoi, illusioni» chiosa con quel sorriso beffardo che va di pari passo con uno sguardo che inchioda senza fare rumore.  

Cammina veloce Mogol, ottant’anni il 17 agosto, lungo il viale che collega le due aree del suo paradiso di Toscolano, in Umbria. Rompono il silenzio il suono dei suoi passi e le note, molto note, di Lucio Battisti che fuoriescono da decine di fioriere disseminate lungo il percorso, ciascuna con una cassa stereo al suo interno. «Senti qui che bellezza» dice mentre nell’aria si diffonde Con il nastro rosa. «Quante cose avremmo potuto ancora scrivere insieme, quante...» dice prima di entrare in una stanza dalle pareti rosse adornata da decine di foto che catturano l’essenza della più leggendaria coppia della canzone italiana.

I due fascisti della musica leggera, secondo l’ideologica  e ottusa impostazione dei Settanta. «Che ridere: una delle prove inconfutabili era una copertina (quella di Il mio canto libero, ndr) con un gruppo di uomini a braccia alzate verso il cielo. Un’invocazione tipo coro greco che venne scambiata per un tripudio di saluti romani» spiega, pensando a quella tredicenne di Genova a cui, lo scorso aprile, un professore ha rifilato un quattro per aver detto in classe: ho sentito dire che Lucio Battisti era un fascista. «Che follia. Era una domanda lecita, anche se frutto di una grande balla» conclude. «Ma qualcuno si ricorda che a Roma, nel covo delle Brigate Rosse di via Gradoli, venne trovata la collezione completa degli album di Battisti? D’altra parte, negli stessi anni, insinuarono anche che io e Lucio fossimo freqentatori dei fantomatici balletti verdi. Non sapevo manco che cosa fossero, poi mi hanno spiegato che era un giro di parole per alludere a frequentazioni di ambienti gay».

Si alza poco dopo l’alba, fa sport, lavora incessamente e viaggia lungo l’Italia come se fosse il protagonista di un neverending tour, invitato da tutti a parlare della sua epopea. Quella di un compositore che, per numero di brani entrati nell’immaginario popolare, non ha rivali al mondo. «Che scriva per Riccardo Cocciante, Mina, Eros Ramazzotti o Adriano Celentano, il metodo non cambia: è sempre la musica a dettare le parole, a suggerire il tema. Respirando la musica, arriva il testo. Che nel mio caso attinge sempre e solo da fatti della vita. Mia o di persone che mi sono vicine. Io faccio il cronista del reale, armato di blocco e penna. La vita vera, per un autore, ha un fascino, una fragranza che nessuna fiction può avere» spiega, ricordando il suo debutto da autore nel 1960 quando con Carlo Donida scrisse le parole di Briciole di baci per Mina.

«Pochi sanno dell’esistenza di una canzone scritta con Lucio che non è mai stata resa pubblica. Si chiama Il paradiso non è qui e avrebbe dovuto essere pubblicata nel 1980, nell’ultimo album che abbiamo fatto insieme, Una giornata uggiosa. Un pezzo folk con un testo che parla di migranti. Di una attualità incredibile, mi permetto di dire. Sa, una volta, dopo la nostra separazione professionale, andai a cena con Lucio. Mi venne spontaneo chiedergli perché i testi delle sue canzoni avevano preso la direzione del non-sense. Mi disse che non aveva molte scelte davanti a lui: o canto in inglese o mi butto sul non-sense. Qualunque altra strada farebbe scattare paragoni con quello che abbiamo fatto insieme».

Si commuove il maestro quando ascolta le musiche composte dall’amico Gianni Bella (colpito da ictus nel 2010 e reduce da una lunga convalescenza). «Gianni è un genio vero» racconta prima di far risuonare nel salotto di casa una delle ultime composizioni dell’artista siciliano. Poi, afferra un foglio con le parole scritte da lui a matita e ci canta sopra sussurrando, mentre con le mani segue l’andamento della musica. «Che magia, quando entrano gli archi c’è un crescendo fantastico. La bellezza arriva dritta all’anima, si insinua tra le brutture» dice infervorato come solo lui può essere davanti a una nuova canzone che prende forma. Per lui la canzone è molto più di tre minuti di musica e parole.

«I libri si leggono e spesso si dimenticano in fretta. Le canzoni si stampano nella memoria per sempre. Ci sono brani come L’emozione non ha voce di Adriano Celentano che, è stato calcolato, sono arrivati a 30 milioni di persone. Un numero impressionante. Questa è la forza di penetrazione della musica nella società. Se il livello della canzone popolare è alto, migliora il livello generale di un Paese. Se invece mandiamo in radio solo schifezze mediocri...» dice convinto. «La gente ha molto più fiuto dei critici: il successo di Emozioni è figlio della gente: in principio, il brano era il lato B del 45 giri di Anna che avevamo presentato ad Alto Gradimento, il programma di Gianni Boncompagni. Fu il pubblico a rovesciare il disco e a capovolgere l’ordine stabilito dalla casa discografica».

Ha poche ma ferree regole in testa Mogol quando parla di canzoni: «Non sopporto i vocalizzi isterici e inutili. Chi sa cantare non urla, non fa smorfie deformanti mentre interpreta un pezzo» scandisce a chiare lettere. «Un’altra categoria che non è proprio nelle mie corde sono i musicisti che ti devono far sentire quanto sono bravi con il loro strumento. Sono atti di onanismo che io definisco sbrodolation rock. Ha presente quegli assoli di chitarra lunghi come il traforo del Monte Bianco?». La pensa esattamente come lui uno dei più grandi musicisti inglesi  di tutti i tempi: Pete Townshend, il chitarrista degli Who. «Tornando ad Emozioni, quasi nessuno sa che in America io e Lucio l’abbiamo fatta sentire proprio a Townshend. Per facilitargli il compito gli consegnammo un foglietto con la traduzione del testo. L’ascoltò e uscì di corsa dalla stanza. Dopo cinque minuti tornò con tutti gli impiegati della casa discografica e disse: ragazzi, per favore, ascoltate questo capolavoro. Che soddisfazione».

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Gianni Poglio