Parsi: «Come rendere il mondo post Covid migliore di quello precedente»
Nel suo ultimo libro, l'ordinario della Cattolica lancia cinque proposte per riportare in equilibrio il nostro sistema.
«Il circolo vizioso in cui il mondo è finito va interrotto prima che sia troppo tardi. E io credo che oggi ci siano le condizioni, oltre che le idee, per poterlo fare». È un appello accorato, quello che lancia Vittorio Emanuele Parsi con il suo ultimo libro Vulnerabili. Come la pandemia sta cambiando la politica e il mondo. In questo pamphlet pubblicato da Piemme, il professore ha il merito di dare voci a temi che nessuno in Italia affronta: né i giornalisti, né gli analisti, né tantomeno i politici. E cioè dove sta andando il mondo, perché si è incagliato e come fare a riportarlo in equilibrio. Un libro con tante metafore marinaresche e rugbistiche, da cui traspaiono le passioni dell'autore: il mare e il rugby. Parsi è ufficiale della riserva della Marina e giocatore veterano di rugby. Per tanti anni editorialista di Panorama, insegna Relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano.
Professore, perché ha scritto Vulnerabili?
«Per affrontare un'apparente contraddizione e un reale paradosso. L'umanità è la specie più infestante, quella più minacciosa per la sopravvivenza del pianeta Terra, ma è anche la componente più vulnerabile del mondo che ha costruito intorno a sé negli ultimi decenni. Siamo estremamente pericolosi per l'ecosistema, soprattutto a causa della realtà artificiale che abbiamo edificato nella convinzione di esasperare ed esaltare (almeno in apparenza) le nostre capacità. E allo stesso tempo siamo enormemente fragili nella nostra dimensione naturale, per i rischi ai quali ci espone la medesima struttura che ci siamo costruiti intorno. Il nostro è un sistema in cui la valorizzazione delle risorse è legata alla mobilità: le risorse sono tanto più valutate quanto più possono muoversi, che siano bit, cose o persone. L'iperglobalizzazione è stata essenzialmente questo: assegnare valore innanzitutto alla mobilità. Un sistema in cui le informazioni vengono al primo posto, poi c'è il denaro, poi le merci e infine gli esseri umani».
Con gli esseri umani buoni ultimi...
«Partendo da questa constatazione mi sono chiesto come sia stato possibile concepire un sistema fatto in questo modo. Una nave la costruisci pensando innanzitutto all'elemento più vulnerabile, che è l'equipaggio. È tutto costruito intorno e a partire dalla vulnerabilità dell'equipaggio. Allora bisogna costruire un sistema complesso che parta dalla consapevolezza della nostra vulnerabilità. Per proteggerla, non per danneggiarla ulteriormente».
Con la pandemia, poi, abbiamo proprio toccato il fondo.
«La pandemia ha esasperato le contraddizioni. Ha attaccato l'anello debole di questa struttura di interdipendenza, l'essere umano, perché era l'elemento meno protetto. E quindi a quel punto ha bloccato il sistema. Il mio libro prospetta la necessità e la possibilità di uscirne, non perché tutto torni come prima ma perché tutto diventi meglio di prima».
Cambiare tutto perché nulla rimanga com'è, il contrario di quello che diceva Il Gattopardo...
«Esatto. È ovvio che c'è un forte rischio di restaurazione dello status quo ante. Ma in realtà lo status quo ante era già insostenibile. Abbiamo visto dagli anni Novanta in poi che si sono continuamente susseguite crisi, finanziarie innanzitutto, dagli effetti devastanti, che hanno contribuito a rendere il sistema sempre più oligarchico, in termini sia di ricchezza sia di reddito sia di potere.».
Lei cita gli anni Novanta: il crollo del comunismo ha portato con sé anche la crisi del capitalismo?
«Beh, perché è mancata proprio quella dialettica, quell'opposizione fra logiche e sistemi che consentiva di tenere in piedi il mondo. Un po' come in una mischia di rugby, in cui otto spingono contro otto. Non allo scopo per tenere insieme la mischia, ma per sopraffarsi a vicenda. Questo però ai tempi della Guerra fredda aveva un effetto di bilanciamento. Non dimentichiamo poi che siamo in una fase di crisi quarantennale e le strategie di uscita dalla crisi non possono limitarsi a indicare come uscire dalla pandemia. Franklin Delano Roosevelt è ricordato con il New Deal non perché ha portato l'America fuori dalla crisi del '29, ma perché l'ha portata fuori dalla crisi che da 50 anni attanagliava il sistema. E così ha fatto Lyndon Johnson con la Great Society rispetto al problema dei neri, che non era un problema degli anni Sessanta, ma era un problema dagli anni Sessanta dell'Ottocento, dalla fine della Guerra di secessione. E così oggi Joe Biden propone una riforma che non si limita a farci uscire dalle conseguenze della pandemia, ma cerca di rimettere in piedi il sistema».
Lei ritiene che Biden stia realmente cercando di fare qualcosa per porre rimedio alle storture del sistema?
«Sì, penso che Biden abbia capito perfettamente che la sfida con la Cina sull'Indo-Pacifico si vince a partire dal rilancio dell'Atlantico. E significa rendere evidente che la leadership americana e occidentale è il male minore rispetto alle altre. È sempre stato così nel discorso degli Stati Uniti: era meglio l'America rispetto ad Adolf Hitler, era meglio l'America rispetto a Iosif Stalin e oggi è meglio l'America rispetto a Xi Jinping. Però, perché questo sia vero, il modello dev'essere inclusivo, funzionante, distinguibile. Dev'essere un modello di democrazia e di economia di mercato vere, perché si possa dire: "Ecco la differenza fra Atene e Sparta". Ma questo significa anche cambiare il sistema interno, renderlo più equo. Non a caso Biden ha lanciato un piano che si chiama "American Jobs"».
Un chiaro programma.
«Appunto. Non si chiama digitalizzazione e Green economy. Si chiama lavoro. E c'è una cosa importante che ha detto nel lancio di quel programma. A Jeff Bezos di Amazon e a tutti gli altri che si sono arricchiti durante la pandemia, mentre ai cittadini veniva chiesta una grande limitazione della libertà personale ha detto: "Voi vi siete arricchiti e avete eluso le tasse, sfruttando le scappatoie legali che offre il sistema. Voi vi siete chiamati fuori da questa comunità politica". Questo è un discorso che ricorda l'ostracismo greco ai tempi di Atene. È per questo che ha un impatto forte. E lo fa per un motivo molto semplice: per poter essere credibile, il potere democratico dev'essere vero. Sennò... Allora tanto vale i cinesi».
In passato Biden non aveva brillato per essere particolarmente innovativo.
«Ma neanche Roosevelt aveva brillato prima di inventarsi il New Deal. Anche Johnson non si era distinto fin quando non ha inventato la Great Society. Il punto non è il passato. Il punto è se sei disponibile a capire che le cose stanno cambiando e a dare il tuo contributo a cambiarle per un verso o per l'altro. Un settantenne presidente degli Stati Uniti ha molto da insegnare a tanti quarantenni-cinquantenni della politica italiana o europea».
Biden è anche stato costretto dalla pandemia a muoversi e a cercare una soluzione.
«Anche Ulisse è stato costretto dalla guerra di Troia a inventarsi il cavallo».
Quindi ha un'opinione favorevole di Biden?
«Al momento sì, perché ha un piano coerente. Quanto all'Europa, Biden ci sta chiedendo di smettere di avere solo politiche deflattive e di smettere di essere una zavorra, che quando l'economia è in crisi le aggrava e quando è in ciclo espansivo le rallenta. Nella nostra concezione economica, quello che conta sono i consumi e non i redditi. Ma se il fine ultimo è operare in modo che la crescita diventa sviluppo, allora a quel punto diventa possibile nuovamente produrre. Questo è il punto fondamentale. Noi abbiamo costruito un modello economico fondato sull'idea infame e squilibrata che tutti devono esportare. Ma perché dovremmo dipendere dalle scelte di acquisto dei mercati esteri? E comunque un'economia internazionale aperta dev'essere in equilibrio. E un'economia che si fonda su tre/quattro/cinque grandi esportatori e alcuni grandi importatori è in continuo disequilibrio. E infatti dagli anni Novanta noi siamo completamente squilibrati».
Ma come ne usciamo? Nel suo libro lei pone l'attenzione sul ruolo della politica. E attacca l'Ue per la gestione fallimentare dei vaccini.
«L'Unione europea è stata incapace di concepire la superiorità dell'interesse pubblico, nel senso di interesse generale della collettività, rispetto all'interesse privato. Nel senso che l'Unione europea, e cioè la Commissione e il Consiglio (la parte comunitaria e gli Stati membri) non riescono a concepirsi più come soggetti sovrani. E questa è stata una deriva duplice: da un lato negli ultimi 40 anni c'è stata un complessivo dilagare della logica di mercato, che è fondata sulla tutela degli interessi privati in competizione fra loro, ma se si colloca qualcosa solo, o principalmente nel privato, si finisce con il perdere l'idea che ci sia un interesse superiore che deve essere protetto».
Vale a dire?
«Detto in termini più sintetici, in questi anni abbiamo fatto grandi discussioni su dove stesse la sovranità fra Unione europea e Stati membri, ma non ci siamo accorto che nel frattempo la sovranità veniva privatizzata, perdendo la sua natura pubblica. Se tu non ti sai pensare come un soggetto pubblico, non ti vengono in mente neanche gli strumenti a cui può fare ricorso un soggetto politico e pubblico. Per cui se l'Ue è in guerra contro la pandemia, avrebbe dovuto imporre certe procedure».
Che tipo di procedure?
«Per esempio l'obbligo di produzione su licenza, quindi il non riconoscimento del guadagno sul brevetto dei vaccini. Perché sono stati sviluppati anche attraverso una massiccia infusione di fondi pubblici, altrimenti non sarebbero arrivati i vaccini così in fretta. D'altro canto, è previsto dagli stessi accordi del Wto: in condizione di emergenza si può sospendere il pagamento del brevetto. India e Sudafrica hanno chiesto la sospensione del pagamento del brevetto per i vaccini anti-Covid. E chi si è opposto? Unione europea, Stati Uniti, Giappone e Canada. Come se noi non avessimo interesse a che tutti si vaccinassero il più presto possibile al costo più basso possibile. Perché la pandemia non si ferma sul pianerottolo di casa».
Quello dei vaccini non è l'unico esempio dello squilibrio pubblico-privato durante la pandemia.
«Certo. Ci siamo trovati nella condizione in cui, mentre agli individui veniva chiesto di rinunciare alla propria libertà individuale, si consentiva alle grandi corporation di fare soldi senza pagare le tasse. Questo è quello che va riequilibrato. Abbiamo assistito negli ultimi anni a una oligarchizzazione tanto della democrazia quanto del sistema economico».
L'altra sfida su cui lei insiste nel libro è l'innovazione tecnologica.
«Sì. Noi sappiamo che la grande trasformazione prodotta dall'introduzione della macchina a vapore e del telaio meccanico ha richiesto quasi un secolo e mezzo prima che le sue conseguenze economico-sociali venissero governate. Ci sono volute due guerre mondiali e la rivoluzione russa e nella seconda parte del Novecento si è trovata la quadra: una democrazia inclusiva in un mercato inclusivo. Se non c'è la responsabilità politica, l'innovazione tecnologica non si trasforma in progresso e la crescita del Pil non si trasforma in sviluppo. Noi oggi siamo di fronte a due innovazioni tecnologiche in 40 anni: la digitalizzazione e l'intelligenza artificiale. E stiamo rinunciando a governarne le conseguenze economiche. Anche il Next Generation Eu, che per tanti aspetti è encomiabile, si concentra sulla digitalizzazione e sulla Green economy e dedica molto poco spazio alla gestione delle conseguenze di questo. Qualcuno può pensare che un mondo che si digitalizza ed è sempre più penetrato dall'intelligenza artificiale da solo non produrrà ancor più oligarchia? È assurdo».
Di pari passo si pone il tema della gestione degli squilibri e quindi del dissenso.
«Certo. La politica che cos'è? Due cose: immaginare un futuro e chiamare i cittadini a consentire su quest'immagine e dall'altra parte lottare nel presente per il potere, che detto banalmente significa cercare di controllare il processo che porta verso quel futuro. Questo significa che la politica deve riconoscere il dissenso e il conflitto che la competizione economica genera. Riconoscendolo, la politica lo depotenzia e lo rende meno violento. Se la politica rinuncia a fare questo, fa semplicemente la gestione del consenso. Oggi la gestione del consenso non funziona e lo stiamo vedendo proprio adesso, con la gente che va a protestare per strada. È nessario dare rappresentanza al conflitto sociale e ai diversi punti di vista».
Perché?
«Perché è l'unico modo per escludere la violenza. La grande differenza fra la democrazia ateniese e la democrazia rappresentativa moderna sta proprio in questo. La democrazia diretta conteneva la violenza nella forma dell'ostracismo: quando qualcuno diventava troppo potente o troppo ricco veniva allontanato dalla città. La democrazia indiretta, rappresentativa, invece ha la violenza nel momento costituente (la rivoluzione francese, quella inglese, quella americana) ma poi è tutto regolato, la violenza è espulsa dal sistema. Se questo sistema della democrazia indiretta verrà meno a questa funzione di rappresentare il dissenso, finirà. Ed ecco che torniamo a Biden: quando attacca Bezos dicendo "Ma tu come hai fatto, con che coraggio hai eluso le tasse in un anno come questo?" sta proclamando un ostracismo stimolato. Sta dicendo a queste corporation: "Cosa volete voi? Volete tornare a essere membri della polis e quindi fare il vostro dovere fiscale, al di là delle scappatoie? O volete che vi indichi allo scandalo pubblico, dicendo che siete i nemici della Repubblica e quindi dovete uscire dalle mura?" Questo è quello che è in gioco in questo momento».
E arriviamo alla quarta sfida: il lavoro, che non a caso Joe Biden ha messo al centro del suo piano.
«Il lavoro è centrale perché la gran parte delle persone non ha capitali da portare nel processo economico, ma il proprio lavoro, le proprie capacità».
Le proprie braccia...
«Le braccia, certo. Il paradosso è che proprio perché non abbiamo governato le conseguenze dell'innovazione tecnologica rivoluzionaria che stiamo vivendo ci troviamo con la tecnologia che potrebbe consentirci di impiegare tutti quelli che vogliamo, facendoli lavorare meno e avendo più tempo libero, e invece lo stiamo trasformando in un problema. Il paradosso è che potremmo liberarci dalla fatica del lavoro e invece ci stiamo liberando dei lavoratori, che di conseguenza faticano di più rispetto a prima cercando di fare lavoretti per quattro soldi».
I mini-Jobs.
«Questo è l'esempio classico di cattiva gestione dell'innovazione tecnologica. Perché se la lasciamo da sola produce e amplia la disparità, ma se invece la governiamo politicamente produce opportunità per tutti, Trasforma il beneficio di pochi in beneficio di molti. Questo deve fare la politica».
E per concludere arriviamo alla gestione della minaccia esterna, quelli che lei chiama i cavalli di Troia.
«I cavalli di Troia sono il frutto perverso dell'oligarchizzazione dell'economia e della politica che abbiamo avuto in Occidente. Perverso perché noi abbiamo compresso le differenze fra il nostro sistema occidentale, fondato su democrazia ed economia inclusive, e il modello degli altri, fondato su sistemi politici autoritari e capitalismo di concessione, in cui gli attori economici dipendono dal favore del Principe, si pensi al cinese Jack Ma, il fondatore di Ali Baba, ma anche agli oligarchi russi o ai sauditi. E cosa abbiamo fatto? Abbiamo detto: "Noi siamo solo un mercato finanziario, in cui entrano tutti quelli che stanno a queste regole". In realtà quelle regole hanno consentito a società che provengono da altri mondi di differente regolamentazione giuridica di entrare nei nostri mercati. E noi anzi li attiriamo: ben vengano i capitali dalla Cina, dalla Russia e dall'Arabia saudita. E siamo come i troiani di fronte al cavallo. In questo momento noi, come sistema occidentale, abbiamo da un lato il problema classico, dai tempi di Atene, di gestire le diseguaglianze in modo che non producano oligarchie. Dall'altro abbiamo i cavalli di Troia, come Huawei, che assomigliano in tutto e per tutto a compagnie occidentali, ma non sono compagnie occidentali».
Ci spieghi perché.
«Per Huawei è facile vederlo, perché non c'è nessuna possibilità di argomentare razionalmente che una compagnia come Huawei, se fosse incaricata di realizzare la rete 5G, non metterebbe a disposizione le informazioni che raccoglie nel momento in cui il partito comunista cinese glielo chiedesse. Perché in quel sistema non potrebbe fare altro. A noi sembrano fantastici gli investimenti cinesi, la tecnologia e l'innovazione. Esattamente come i troiani che dicevano: "Bellissimo questo cavallo" e portiamo la minaccia dentro le nostre mura».
La sua tesi di fondo è insomma che serve un ritorno della politica?
«Sì. Il potere economico tende a proteggersi politicamente da sempre e il potere politico tende a razziare l'economia da sempre, in tutti i sistemi. Che cosa ci ha garantito da tutto questo? Proprio quell'innovazione della seconda metà del Novecento: una democrazia inclusiva e un mercato aperto, che fossero un'opportunità per i molti e non solo per i pochi. Se noi non torniamo su questo, non abbiamo possibilità».
Tornare in che senso?
«Non sto dicendo che si debba riprodurre il modello del Novecento. Ma sto dicendo che la preoccupazione che aveva portato a quel modello era come evitare che l'ordine sociale interno, il benessere delle società nazionali fossero esposti alla minaccia della guerra e delle crisi finanziarie. Oggi abbiamo lo stesso problema. E invece ci chiediamo come difendere l'apertura del mercato internazionale dalle esigenze delle società. Il mercato aperto era uno strumento per proteggere il fine ultimo che era il benessere e l'ordine sociale. Se noi torniamo a questo, siamo in grado di difendere tutti gli asset in fila. Si può fare? Adesso si può fare. È come se andassimo in barca a vela: in questo momento possiamo virare a destra o a sinistra, cambiando le mura delle nostre vele, perché la vela porta meno. Questo è il momento. Certo, però, ci vuole un colpo di barra deciso, perché se continuiamo a traccheggiare non saremo più con le vele gonfie da un lato e non saremo capaci nemmeno di andare dall'altro. E finiremo alla deriva».
Insomma, bisogna cogliere l'attimo.
«Proprio così. Bisogna cogliere quest'opportunità, Ora o mai più»