Nelle stanze segrete di Vittorio Sgarbi
Siamo entrati nel luogo che custodisce le opere della collezione del critico. Migliaia, fra capolavori di scultura e pittura raccolti in 30 anni
Un antico casale, sperduto nella Pianura Padana, dove anche il navigatore smarrisce la via. Le «stanze segrete» di Vittorio Sgarbi sono qui, 27 ambienti dove il critico serba la sua immensa collezione d’arte: oltre 4 mila opere, una raccolta mai mostrata al pubblico italiano e nota soltanto agli estimatori d’arte amici di casa.
Ora, però, un gustoso assaggio sarà per tutti. Circa 150 di quei capolavori andranno in mostra nel bellissimo palazzo Campana di Osimo (Ancona), a documentare (dal 13 marzo fino al 30 ottobre) un’avventura estetica e umana iniziata più di 30 anni fa, una vicenda collezionistica intrisa di aneddoti, incontri, occasioni, scoperte, studi. E misteri.
Lotto, Artemisia, Guercino. Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi: questo il titolo della rassegna. E l’accento deve cadere su quelle «stanze segrete», mai svelate, appunto, che il critico ha riempito «con disordinato rigore», mettendo i riconosciuti maestri della storia dell’arte al fianco dei tanti cosiddetti minori.
È fra questi capolavori, dentro queste suggestive mura, che Panorama incontra Sgarbi, pochi giorni prima che le opere prendano la via di Osimo.
Ci si muove a malapena. Non è un magazzino, ma una vera casa vissuta. Si cammina attenti tra saloni e corridoi. Centinaia di sculture affollano mobili antichi, tavoli e pavimenti. I dipinti alle pareti sconfinano su librerie e suppellettili.
Tiziano, Lorenzo Lotto, Guercino, Artemisia Gentileschi, Guido Cagnacci, Jusepe De Ribera. Grandi maestri contendono lo spazio ai meno noti Giovanni Andrea Donducci, Pietro Damini, Orsola Maddalena Caccia. Accanto a loro sfilano centinaia di altri artisti sconosciuti al grande pubblico.
Come sono arrivati qui? «Dopo le lezioni di Bruno Cavallini, mio zio letterato, e di Francesco Arcangeli, il primo e più appassionato allievo di Roberto Longhi, l’impulso a collezionare arte mi venne con la frequentazione di Mario Lanfranchi, collezionista-maestro perfetto» spiega Sgarbi. «Fu grazie a lui che potei rompere il dogma universitario, quello cioè che mi faceva guardare le opere d’arte come beni spiritualmente universali ma indisponibili materialmente. Fino a quell’incontro, le opere mi erano sembrate idea, pensieri, non cose».
E le «cose» qui sono tante. La densità di manufatti ricorda e supera quella del Vittoriale. Non ci sono confini tematici o temporali. Il Rinascimento cede il passo ai secoli successivi e arriva ai giorni nostri, in un’accumulazione che ha finito con l’erodere ogni spazio vitale domestico.
Si entra insomma in un luogo magico e senza tempo, dove la quotidianità si confonde con la bellezza. E la realtà si fa manifesto plastico di chi ha abolito ogni confine tra arte e vita.
«Dal 1983, quando acquistai uno straordinario San Domenico di Niccolò dell’Arca, decisi che non avrei più cercato ciò che era possibile trovare, o di cui si poteva presumere l’esistenza, ma soltanto ciò che per sua natura era introvabile» racconta Sgarbi.
Non contano solo qualità e quantità, infatti. La grandezza di una collezione si riconosce da un potente filo conduttore. Pur nello «spirito eclettico e corsaro», quella di Sgarbi ne ha uno preciso: l’«incercabile».
Niente obiettivi o regole, ma gusto, intuito, corteggiamento, conquista. Il dongiovannismo è nell’arte come nella vita. Nell’ansia collezionistica di Sgarbi non c’è il desiderio di possedere tutto in un genere limitato, non c’è ambizione di completezza, manca un ordine razionale.
C’è invece la sensuale ebbrezza di vivere, quella di «un cacciatore-raccoglitore alla continua ricerca di ciò che non c’è», ovvero i grandi maestri non conosciuti, le opere d’arte sublimi e mai censite.
La ricerca, spasmodica, è proceduta spedita negli anni, anche quando a mancare non erano le fonti storiche quanto i soldi per acquistare. «Nel 1984, nello studio di un antiquario veneziano frequentato anche da storici valorosi come Carlo Volpe, Erich Schleier, e Pierre Rosenberg, vidi la Sibilla del pittore ferrarese Carlo Bononi» ricorda Sgarbi.
«Pensai che quell’opera fosse lì per me: veniva da Ferrara, la mia città, e mi pareva che mi chiedesse di essere mia. Non ero ricco, ma grazie a una collaborazione con la rivista FMR potevo contare su un introito generoso. Quel giorno però i soldi non li avevo. O comunque li avevo già spesi. Così, in perfetta mala fede, feci un assegno scoperto, caricai la Sibilla sul tetto dell’automobile, e me la portai a casa. È ancora lì, da oltre 30 anni». Quanto costava? «10 milioni di lire, molto più del mio stipendio mensile». Poi saldò il conto? «Immagino di sì».
Perché poi i soldi arrivarono… «Con la televisione, tanti» ammette Sgarbi. «Le opere che ho acquistato sono state pagate tutte con quei guadagni. In tutto avrò speso più di 20 miliardi di lire». Indebitandosi, anche? «Ai tempi della lira ero sotto di due miliardi. Poi sono diventati due milioni di euro. Ora ho perso il conto».
Un collezionista può trascurare il denaro ma non la storia di ogni opera. Fra gioie e dolori. Come quell’Allegoria del tempo di Guido Cagnacci, che sarà uno dei pezzi più intensi in mostra a Osimo, un dipinto firmato, una delle opere fondamentali dell’autore. «Che però fu esclusa dalla prima mostra dedicata al pittore a Rimini, nel 1993, per un eccesso di zelo dei modesti curatori nei confronti di Federico Zeri, allora mio nemico giurato e patrono della mostra». Il Cagnacci fu esposto da solo in una sala del Grand Hotel di Rimini… «Ed ebbe successo più di tutte le altre opere mostrate nella sede ufficiale».
Quel dipinto, che ai simboli del tempo unisce i profumi della carne, è la migliore metafora per l’intera collezione di Sgarbi: una raccolta divisa tra la passione della ricerca, il desiderio che il passato possa rivivere, ma anche le circostanze (inspiegabilmente avverse) che hanno impedito il suo mostrarsi al pubblico.
La grande raccolta del critico è infatti l’unico mistero della sua vita. Sgarbi non ha mai nascosto alcun aspetto della sua esistenza. Nella sua biografia, com’è noto, ciò che è pubblico è anche privato, e viceversa, in un cortocircuito mediatico indifferente agli steccati tra arte, vita, avventura politica e showbiz. Come mai, allora, l’uomo che ha fondato la propria esistenza sulla scoperta della bellezza non ha rivelato prima d’ora i suoi tesori?
«Perché ogni tentativo è fallito» risponde amareggiato. «Doveva esserci una grande mostra al Palazzo reale di Milano nel 2011, ma non se ne fece niente. Idem per quella di Palazzo Braschi, a Roma, l’anno successivo. Nemmeno Ferrara ha mai accettato la collezione, nonostante la offrissi gratuitamente, e malgrado le sale del castello cittadino siano praticamente vuote».
Le cause sono forse nelle bizze del carattere, e negli attriti, negli strappi con la politica, come quelli con Letizia Moratti (poi ricuciti) e con Stefano Boeri; oppure nei tempi sbagliati, nella burocrazia, nel fato. Tant’è. «Parte della collezione è stata esposta in Spagna e in Messico, con oltre 250 mila visitatori» precisa Sgarbi. «Era assurdo che mancasse l’Italia».
Finalmente Osimo, dunque. L’esposizione sarà dedicata alla madre di Vittorio Sgarbi, Rina Cavallini, che è scomparsa lo scorso novembre e che un grande ruolo ha avuto nella costruzione dell’intera collezione, battendo quasi tutte le aste alle quali il figlio teneva. Nel catalogo della mostra messicana, la madre firmava un testo di struggente tenerezza, ringraziando il figlio «che con queste opere non ha mai smesso di riempirmi la testa di bellezza».
Parte di quella bellezza sarà adesso a disposizione di tutti almeno per sei mesi, nella sede di Palazzo Campana, con un’attenzione speciale ad alcuni artisti attivi nelle Marche, come Cola dell’Amatrice, Battista Franco, Andrea Lilio, Pier Leone Ghezzi, Sebastiano Ceccarini, Giovan Battista Nini, Francesco Podesti, oltre naturalmente al Lorenzo Lotto del titolo e al Sassoferrato.
Per gli italiani sarà l’occasione di scoprire giganti poco noti. La speranza del critico è però che alla parte più rilevante della raccolta («almeno 600 opere») sia data presto una degna collocazione: «pubblica, permanente e gratuita».
Qualcuno si è proposto. «Sono arrivate candidature da Firenze, Venezia, Padova, Matera. Valuteremo» anticipa Sgarbi. «La mia vocazione pionieristica mi fa confidare soprattutto in Matera: la città, che nel 2019 sarà capitale europea della cultura, sarà anche, come credo, il simbolico punto di ripartenza per il Sud. La mia collezione, in quel luogo, sarebbe la più importante di tutto il meridione, dopo il museo di Capodimonte a Napoli».
Ma perché tiene così tanto a una collocazione pubblica? «Perché in queste opere è riflessa l’essenza della mia autobiografia critica e del mio pensiero. E le cose dello spirito, come sono le opere d’arte, non ci appartengono, soprattutto quando risarciscono, come fanno quelle della collezione, che sono numerose e documentate, una storia lacerata».
Questa mostra ne sarà l’attesa premessa? «Di più. Sarà una sorta di bilancio culturale. Sarà un po’ come vedere dall’aldilà una parte di ciò che resterà di me e del mio lavoro di critico e di storico dell’arte».
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