8 settembre 1943, l'armistizio e la tragedia dei militari
La Rubrica - Come Eravamo
Da Panorama del 20 novembre 2003 - di Elena Aga Rossi
La sera dell'8 settembre 1943 veniva annunciata la firma dell'armistizio tra l'Italia e gli angloamericani. La popolazione si riversò nelle piazze per festeggiare la fine della guerra, senza rendersi conto che stava iniziando un periodo ancora più traumatico: l'occupazione tedesca.
La storia dell'armistizio tra l'Italia e le potenze alleate è ancora poco conosciuta. Pietro Badoglio, il massimo responsabile del crollo dell'esercito seguito all'annuncio dell'armistizio, per coprire le proprie colpe accusò gli angloamericani di aver anticipato l'annuncio dell'armistizio. In realtà, gli angloamericani durante i negoziati si rifiutarono di indicare la data dell'annuncio, perché doveva coincidere con l'inizio dello sbarco a Salerno. Nello stesso tempo presero sul serio l'offerta di collaborazione attiva avanzata dal generale Giuseppe Castellano, impegnandosi a far sbarcare una divisione aviotrasportata per aiutare la difesa della capitale. Soltanto il 7 settembre scoprirono che gli italiani non controllavano gli aeroporti vicino a Roma e la divisione fu fermata mentre stava partendo.
Il governo Badoglio era convinto che uno sbarco alleato sulla Penisola avrebbe spinto i tedeschi a ritirarsi. L'Italia avrebbe potuto uscire dal conflitto in modo indolore, togliendosi di dosso il marchio di nemico sconfitto. Dopo alcune ore di incertezza, però, il generale Albert Kesselring decise di non ritirarsi e di occupare Roma. Durante la notte dell'8 settembre il governo e il re fuggirono al Sud, portandosi dietro i comandi militari e lasciando l'esercito senza ordini precisi, se non quello di cessare le ostilità contro le forze angloamericane, ma di reagire «a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Alla responsabilità della monarchia e del governo si deve aggiungere la colpevole passività della maggioranza dei comandanti, che abbandonarono i loro posti o accettarono di far disarmare le loro truppe dai tedeschi, condannando così intere divisioni (tra 600 e 750 mila uomini) all'internamento in Germania. Fu persa l'occasione di avere condizioni di armistizio meno pesanti e l'intero Paese fu abbandonato alla violenta vendetta dei tedeschi. Vi furono però divisioni, reparti e singoli ufficiali sia in Italia sia nei territori occupati che rifiutarono di essere disarmati, motivati da un sentimento di onore militare e di fedeltà alla monarchia e alla patria. Date le circostanze, la scelta di resistere con le armi fu spesso una scelta eroica.
I militari morti nei combattimenti delle settimane seguenti all'8 settembre o fucilati dopo la resa dai tedeschi furono almeno 20 mila. Soltanto negli ultimi anni si è parlato della tragedia della divisione Acqui a Cefalonia e a Corfù, ma altri episodi di resistenza anche prolungata si verificarono nei Balcani e in molte parti d'Italia: ai confini del Frejus e di Tenda, a Ventimiglia, Piombino, Sarzana, Napoli, Barletta, Boves, per citare solo alcuni luoghi. Particolarmente significativa è la storia del gruppo di San Martino, la cui memoria è rimasta viva a livello locale ma dimenticata dagli storici. La resistenza dei militari, sia quella attiva, come reazione armata, sia quella passiva, come rifiuto di collaborare o di aderire alla Repubblica sociale, è stata per molti anni lasciata alla memoria e al ricordo dei superstiti e delle loro associazioni. Eppure, la scelta di reagire e di resistere con le armi ai tedeschi nel periodo 1943-45, anche se fatta da una minoranza dei militari e dei civili, mostrò la capacità degli italiani, nel periodo più difficile e oscuro della nostra storia, di combattere e morire per il futuro della nazione.