La prof. accoltellata a scuola ci obbliga ad affrontare il problema culturale ed educativo dei giovani
Un altro episodio di violenza nelle aule scolastiche italiane. Tra bullismo, diverbi, litigi e episodi di cronaca nera, ormai se si parla di scuola serve ricorrere al lessico del conflitto, della guerra. E adesso bisogna fare qualcosa, prima che la deriva sfoci in tragedia.
E’ lunedì mattina e occorre già aggiornare il bollettino di guerra dal fronte scolastico. Uno studente sedicenne dell’istituto Alessandrini di Abbiategrasso, in provincia di Milano, ha minacciato una sua docente, poi l’ha ferita con un coltello e infine si è asserragliato in un’aula con alcuni compagni, armato di una pistola giocattolo. All’arrivo delle forze dell’ordine, non ha opposto resistenza e sono finiti tutti all’ospedale: il ragazzo dopo essere stato interrogato dai Carabinieri, la docente in codice rosso, poi tramutato in giallo.
L’episodio va in archivio avendo evitato le conseguenze peggiori per le persone coinvolte, ma se si pensa alle condizioni della scuola italiana, l’avvenimento è un nuovo limite in basso e richiede una riflessione sul clima che si vive nelle nostre scuole e una considerazione circa la direzione in cui si stia andando.
La scuola è un disagio per molti. Solo quest’anno, moltissimi studenti hanno protestato, anche con toni forti, per la mancanza di dialogo tra l’istituzione e i loro bisogni. Gli episodi di violenza, di cui quello di stamattina è solo l’ultimo in ordine cronologico, non si contano più. E a questi va aggiunto il bullismo tra pari, gli sberleffi nei confronti dei docenti, perpetrati quotidianamente - e spesso filmati e pubblicati - nelle scuole cosiddette “di frontiera” ma che andrebbero chiamate “della repubblica” per non abituarsi a certe derive, per non consentire che ci siano ambienti in cui sia permesso di tutto. Sempre più frequenti sono i diverbi e litigi tra genitori e docenti, in questo caso senza assegnare responsabilità, ma solamente registrando il confronto avvertito sempre più come scontro e incomunicabilità. Ancora, gli sportelli psicologici sono pieni di docenti in “burnout” lavorativo, esauriti dalle incombenze e dalle responsabilità; meglio non va agli studenti sempre più medicalizzati, tra disturbi dell’apprendimento trascurati o sopportati, malattie nervose, abbandoni scolastici, crisi. A tutto questo, si aggiunga la precarietà di alcune scuole in condizioni fatiscenti e l’insicurezza spesso dovuta anche alla mancanza di personale, docente e non docente, che non consente un’adeguata copertura sulla comunità scolastica.
La scuola italiana parla di eccellenza, si rifà il lifting con la tecnologia di facciata, da trent’anni parla di svecchiare i programmi magari non leggendo più Verga (come ha suggerito la scorsa settimana l’autrice Susanna Tamaro) o escludendo dall’obbligo della lettura dei Promessi Sposi (come disse Matteo Renzi tempo fa) ma poi deve fare i conti con il suo lato oscuro che certe mattine la avvicina ad alcune scuole americane, e non per nuove collaborazioni in lingua inglese, ma perché ogni tanto c’è una strage, o quasi.
Per non dare seguito a questa deriva, serve un intervento deciso della politica, ad esempio colmando i tanti buchi di personale ancora esistenti. Ma questo sarebbe il primo passo, il primo di tanti necessari in cui dovrebbe impegnarsi anche tutta la società civile, perché gli studenti sono giovani, figli, nipoti, fratelli, utenti, spettatori, clienti. L’episodio di oggi mostra che gli studenti sono ragazze e ragazzi di sedici anni – come in questo caso – che hanno troppa confidenza con l’uso della violenza, probabilmente consumata tramite serie tv e social, e che con la leggerezza e l’irresponsabilità della loro età rischiano di rovinare la vita a loro stessi e a chi sta loro intorno, per caso – è il caso dei compagni di scuola – o per mestiere, e qui il pensiero va al personale scolastico.
La scuola ha le sue responsabilità, ma non è l’ente educativo, formativo e di istruzione unico nella vita di un ragazzo. Serve una riflessione seria sul ruolo delle famiglie, sugli esempi esaltati dai social e dalla stampa, su quanto si stia investendo per favorire un mondo in cui – nel quotidiano e nel sociale – si dialoghi partendo dall’ascolto, si accolga l’altro, si impari a gestire una sconfitta.
La vita fuori da videogiochi e serie tv non si scrive a matita e certe azioni non si possono cancellare. Facciamo in modo – serve dirlo? - che questa lezione non si impari con il sangue, ma con l’educazione preventiva e attenta a ciò che passa per le mani, per gli occhi e dalle orecchie dei nostri giovani. Non è facile, ma è tutto qui.