L'adesivo con Anna Frank: la banalità del male
Stiamo perdendo la percezione dei limiti, la coscienza del superamento della sottile linea rossa che separa il bene dal male. La conoscenza dall’ignoranza
Viviamo una nuova età della barbarie. Due episodi allucinanti ci aiutano a capire che tutti noi dobbiamo cominciare a preoccuparci per una deriva da imperante "banalità del male". Stiamo perdendo la percezione dei limiti, la coscienza del superamento di quella sottile linea rossa che separa il bene dal male. La conoscenza dall’ignoranza. L’umanità dall’assenza di pietà.
Il caso Anna Frank
Il primo episodio è la distribuzione di adesivi con l’immagine di Anna Frank sulla maglia della Roma, come un insulto, uno sfregio da parte di razzisti antisemiti tifosi della Lazio nella Curva Nord, il territorio del “nemico” giallorosso. Sono stato più volte nella casa di Anna Frank ad Amsterdam. Ci sono stato con le mie figlie. Ci sono stato da solo e con mia moglie. Ci sono voluto ritornare per cercare di capire fino in fondo che cosa potesse significare quella vita miracolosa che Anna era riuscita a ricreare sulle pareti della sua stretta stanza di “prigionia”.
Anche lì c’erano degli adesivi. Immagini di case di vacanze, montagne, idoli del cinema, tutto ciò che era il suo mondo di stelle e di favole ma soprattutto di realtà che lei, in quanto ebrea, non poteva più vivere nella quotidianità, all’aperto di una esistenza normale della quale noi abbiamo perso il senso profondo.
La verticalità. L’unica verticalità che conosceva Anna era quella che la portava in alto, sotto un lucernario, verso uno spicchio di panorama che era l’unico assaggio di libertà che poteva, con molto pericolo, concedersi. Gli adesivi sulle pareti erano per lei finestre sul mondo. Cercava in questo modo di mantenere il contatto con la realtà.
Quello che i razzisti hanno perso. La banalità del male è una forma di cecità, di inerzia morale, è un appannamento della percezione della storia, della realtà, del rispetto di se stessi e degli altri. È la perdita di quella terza dimensione che è la stratificazione della cultura. La caduta vertiginosa dentro un mondo idealmente murato, ben più delle pareti “trasparenti” della casa di Anna.
Il video di Riccione
L’altro episodio è il video di un giovane che a Riccione ha ripreso gli ultimi attimi di vita, l’agonia, di un altro giovane caduto da un motorino. Non importa qui se invece di fare il video chi si trovava lì per caso avrebbe potuto chiamare i soccorsi o fare qualcosa per salvare una vita. Probabilmente altri avevano già telefonato al 112, altri si prodigavano per aiutare l’uomo a terra.
Conta, qui, che il video era diventato più importante della tragedia che si consumava nella realtà. E postarlo è poi diventato un’urgenza, senza considerare le conseguenze. La follia di una morte in diretta che in teoria avrebbero potuto vedere perfino i familiari della vittima. La morbosità di uno sguardo che viola il pudore dei momenti estremi, la debolezza infinita di un moribondo.
I due episodi non sono in tutto paragonabili. Forse si tratta di modalità diverse di allontanamento dalla realtà. Di chiusure dentro mondi murati: l’odio razziale degli ultrà da una parte, quello della schiavitù dei social dall’altra. Ma si tratta di facce diverse di una stessa medaglia. Forme di barbarie contemporanea. Un lager a cielo aperto di cecità e ignoranza.