Afghanistan, elezioni e sangue
Nove milioni di cittadini afghani sono chiamati al voto per eleggere i 249 membri del Parlamento nazionale
Un appuntamento importante quasi quanto le presidenziali (che invece si svolgeranno nel 2019), ma che è vissuto come qualcosa d’inutile e persino controproducente dalla maggioranza della popolazione, costretta a subire la politica nazionale anziché gestirla.
Le elezioni, insomma, sono più un problema che un’opportunità in questo Paese, viste le oggettive "conseguenze della democrazia".
La lunga sequenza di omicidi
Quali siano queste conseguenze è presto detto: dei candidati alla Camera bassa (circa 2.500 persone), già dieci che erano dati per favoriti hanno perso la vita in assassinii e attentati, mentre una serie di attacchi terroristici contro le forze di sicurezza e contro il personale della Nato, hanno contribuito a interrompere la calma apparente della vigilia elettorale.
A Lashkar Gah, il candidato Jabar Qahraman è morto il 17 ottobre per mezzo di una bomba nascosta sotto un divano, mentre il 18 due civili afghani sono rimasti uccisi e tre militari della Nato feriti in un attacco suicida contro un convoglio dell’Alleanza Atlantica nel distretto di Bagram, vicino alla capitale Kabul.
Nelle stesse ore sono morti il generale Abdul Raziq, capo della polizia provinciale di Kandahar, e il capo dell’intelligence locale, Abdul Mohmin, in un attentato nel quale è rimasto invece miracolosamente illeso il comandate delle forze Nato, generale Scott Miller (è la prima volta dal 2001 che il comandante delle forze americane in Afghanistan rimane coinvolto in un attentato).
L’attacco terroristico, portato da guardie del corpo che hanno tradito e che hanno freddato entrambi i militari sparandogli alle spalle, ha costretto il presidente Ashraf Ghani – considerato una testa di legno degli Stati Uniti - a rinviare le elezioni parlamentari in quella provincia di almeno una settimana. Questo è l’Afghanistan oggi, un Paese dove le elezioni parlamentari vengono regolarmente posticipate da tre anni a questa parte, a causa del sangue che continua a scorrere per le strade e, più in generale, dell’instabilità istituzionale in quello che è diventato, a tutti gli effetti, il proverbiale "stato fallito".
Frodi e intimidazioni
L’ultima data per andare al voto era stata fissata nel luglio 2017, ma si è reso necessario un ulteriore rinvio a causa di dubbie dispute sul numero e sulla liceità dei votanti. Uno dei problemi del rito democratico per eccellenza è, infatti, che ogni cittadino afghano ha diritto di votare presso qualsiasi seggio elettorale del Paese. Il che significa che, in teoria, potrebbe votare più volte nello stesso giorno in luoghi diversi, senza che vi sia alcun controllo.
Le frodi e la coercizione, del resto, sono uno strumento largamente in uso da quando si è deciso di portare le consultazioni elettorali nel sistema politico afghano. Per convincere i cittadini a non votare o a votare un candidato compiacente con questo genere di criminalità, più d’ogni altra cosa funzionano ancora sin troppo bene il vecchio metodo dell’attentato terroristico o dell’assassinio di un familiare.
Verosimilmente, la morte del generale Raziq, uomo forte e molto temuto a Kandahar, comporterà la diserzione dalle urne di molti cittadini impauriti. Nonostante ciò, secondo il ministero degli interni afghano "non c’è alcun problema" per il voto, come ha riferito ad Al Jazeera un portavoce del ministero.
Se è vero che sono oltre 70 mila gli agenti di sicurezza attivati per garantire il corretto svolgimento delle elezioni (secondo altre fonti sono meno di 50 mila, però), pesano tuttavia molte incertezze su ciò che faranno i Talebani, vera spina nel fianco del potere centrale.
Il ruolo dei Talebani
Se alcuni degli appartenenti al gruppo fondamentalista islamico hanno smesso le vesti dei terroristi per diventare essi stessi sistema e farsi votare dalla gente, è però palese che nel frattempo continuino a sottostare alle logiche dei clan tribali, che dominano largamente l’Afghanistan grazie soprattutto alla gestione del vero potere: il commercio d’oppio.
Poiché oltre il 90% dell’eroina di tutto il mondo proviene proprio dalle piantagioni dell’Afghanistan, ne consegue che coloro che ne controllano la produzione (ovviamente in maniera del tutto illegale), controllano anche il Paese, dall’economia alle frontiere ai contadini che lavorano la terra. Ecco anche spiegato il motivo per il quale i Talebani non hanno mai accettato il voto, considerato un’imposizione dei Paesi stranieri che intendono comandare il traffico di oppiacei al loro posto. Ma l’Afghanistan è refrattario a qualsiasi ingerenza esterna, come dimostra la sua lunga storia. Ed ecco anche perché i Talebani continueranno a non accettare una pace che non consegni loro in via definitiva quei territori dove i contadini coltivano i papaveri da oppio.
Il che rende a tutti gli effetti questi ex studenti delle scuole coraniche con le armi in pugno, dei "narcoterroristi" che sfruttano la paura della gente per continuare a svolgere i propri traffici illegali, non certo per difendere un popolo e la sua religione.
Le operazioni di combattimento americane contro di loro, inaugurate all’indomani dell’11 settembre 2001, si sono ufficialmente concluse nel 2014, ma ancora oggi sono oltre 8.000 le forze speciali statunitensi rimaste a presidio del territorio, con il compito di formare e assistere le truppe afghane che, un domani ancora lontano, dovranno costituire un vero e proprio argine contro i Talebani e le altre formazioni terroristiche, tra cui l’Isis.
Le forze statunitensi attualmente guidano la missione di supporto in Afghanistan della Nato, che conta oltre 16.000 persone, di cui 950 soldati italiani (cento di questi dovrebbero fare rientro in Italia al completamento del processo elettorale, quindi in teoria entro il 31 ottobre 2018).