Noi, condannati dall'amianto
Parlano le vittime delle fibre letali e i loro parenti. Raccontano come ci si ammali a decenni di distanza e non solo in seguito alle lavorazioni, ma anche a causa di contatti involontari. Eppure, nei processi per accertare le colpe, resta difficile ottenere giustizia
«Anna Maria si è messa tra le mie braccia e si è spenta pian piano». Le parole di Salvatore Cimmino arrivano asciutte, raggelanti. È il racconto di un marito che, un giorno dopo l’altro, ha visto morire la moglie a causa di un mesotelioma per esposizione all’amianto. Una malattia che non lascia scampo, ma in questo caso ha un colpevole. Infatti l’Inail, l’Istituto nazionale sugli infortuni sul Lavoro, ha riconosciuto la natura professionale della neoplasia, confermando che per dieci anni Anna Maria aveva respirato inconsapevolmente la sua condanna, mentre lavorava nella mensa della Centrale Enel di Civitavecchia - Torre Valdalica Sud.
L’inchiesta a puntate di Panorama continua a far luce su un dramma sociale troppo spesso nascosto dietro un muro di omertà. Centri come Broni e Casale Monferrato, l’uno in provincia di Pavia l’altro di Alessandria, restano simboli di un inquinamento che non è rimasto confinato alle fabbriche ma è penetrato nelle case, contaminando le famiglie degli operai per mezzo dei vestiti impregnati di quel materiale. Oggi, il pericolo non viene solo dai luoghi di lavoro, ma anche dall’amianto con cui sono realizzati tetti e vecchie costruzioni: se manipolato senza precauzioni è letale. Basta un intervento fai-da-te, una discarica a cielo aperto, per liberare nell’aria le fibre, che hanno effetti anche a decenni di distanza. Mesotelioma, asbestosi, ma anche tumori alla laringe, ai polmoni o alle ovaie sono in forte crescita. La scienza ancora non ha accertato quale sia la dose minima che provoca queste malattie, ma una cosa è certa: l’amianto ha conseguenze letali.«Rimane un’urgenza di salute pubblica» è netto Rocco Ballantone, presidente dell’Istituto superiore di Sanità, presentando il nuovo rapporto Istisan. Sebbene tra chi ha meno di 50 anni si osservi una leggera diminuzione dei decessi per mesotelioma, il bilancio complessivo rimane drammatico: dal 2010 al 2020, quasi 17 mila italiani sono stati colpiti da questo tipo di tumore. C’è di più. Il Registro nazionale dei mesoteliomi ha registrato 31.572 casi di mesotelioma maligno tra il 1993 e il 2018, una cifra destinata a crescere con il nuovo aggiornamento atteso entro la fine dell’anno. Secondo il Centro operativo regionale della Lombardia, questo territorio del Nord è il più colpito con un terzo dei malati per questa neoplasia: oltre 9.200 casi dal 2000 a oggi. Il 65 per cento è riconducibile al luogo di lavoro, il 7,5 per cento a esposizioni familiari o ambientali, mentre per il 27 per cento non si riesce ancora a determinare la motivazione, probabilmente legata a nuovi settori, come il tessile e le confezioni di abiti. «In questi anni» afferma Carolina Mensi, responsabile del Registro della Lombardia, «abbiamo evidenziato esposizioni lavorative inaspettate: parrucchieri, cantanti lirici e musicisti, addetti alla rotocalcografia, alla produzione di termostati, di macchine da caffè, di proiettori di pellicole di film». A Broni, dove si trova lo stabilimento Fibronit, «il tasso di incidenza dei mesoteliomi è 20 volte più alto negli uomini e oltre 30 volte maggiore tra le donne rispetto al resto della Lombardia» aggiunge Mensi. I numeri impressionano, ma non c’è da stupirsi: l’impianto faceva dono delle lastre imperfette alla popolazione. Che sono state utilizzate non soltanto sui tetti, ma anche al posto delle beole in giardino, per costruire tavoli, tettoie per la rimessa degli attrezzi o del pollaio.
Dietro alle statistiche, ci sono però storie vere. Come quella di Fabio Guarnaschelli, 48 anni, che non ha mai messo piede nella fabbrica pavese né è mai stato a contatto con chi ci lavorava. Gli è bastato respirare l’aria inquinata del paese dov’è cresciuto. Così è morto. Fabio era legato alla terra: nel suo vivaio, lungo la strada che da Broni porta a Pavia, progettava e realizzava parchi e giardini. Lascia due figli piccoli e una moglie, Anna Maria Guazzi. «Se non fossi nato e vissuto a Broni, ora non sarei un malato terminale» le aveva detto. Grazie all’intervento dell’Associazione per le vittime dell’amianto Avani, aveva almeno ottenuto una somma di 10 mila euro dall’Inail, come «prestazione economica-assistenziale erogata una sola volta ai malati di mesotelioma non professionale e ai loro eredi». Nessun altro risarcimento. Intanto, l’amianto resta negli edifici della cittadina. La bonifica della Fibronit è bloccata. L’area è sotto sequestro per presunte irregolarità nelle operazioni di risanamento. Anche nel liceo scientifico «Camillo Golgi», con i suoi 450 studenti, c’è ancora il materiale tossico. Mancano risorse per la sua rimozione, nonostante sia una potenziale, grave minaccia per i ragazzi. «Il problema è che la nuova generazione che oggi vive qui non ha coscienza del dramma di un passato neanche troppo lontano» lamenta Silvio Mingrino, presidente di Avani. «Le famiglie preferiscono spendere mille euro per un smartphone nuovo, piuttosto che mettere in sicurezza la casa. Appena 64 persone hanno risposto agli ultimi tre bandi del Comune di Stradella, che si trova a pochi chilometri da Broni. E molte non hanno nemmeno effettuato le bonifiche. Pensano: “A me non capiterà mai”». Invece, le malattie imputabili all’amianto colpiscono.Rosella Tiengo, 60 anni, ha scoperto nel 2021 di essere affetta da un mesotelioma peritoneale. Da piccola abitava dietro la fabbrica del cemento, dove lavorava il padre. «Ad agosto, quando mi svegliavo, il terrazzo era tutto bianco. Sembrava nevicasse» ricorda. «Dentro di me ho una bomba a orologeria forse da più di 40 anni, e non so quanto tempo mi resta da vivere». Rosella non è più in grado di lavorare, le è stata riconosciuta un’indennità di malattia per sei mesi all’anno e un accompagnamento per invalidità al 100 per cento. Dopo estenuanti procedure burocratiche, è riuscita a incassare 10 mila euro dall’Inail. «Fare causa? A chi? Nessuno è mai riuscito a ottenere un risarcimento adeguato per il male che gli è stato fatto». I dirigenti della Fibronit sono quasi tutti scomparsi e i processi penali si sono conclusi in Cassazione perché «il fatto non sussiste». Stesso esito per il magnate dell’Eternit di Casale Monferrato, Stephan Schmidheiny, assolto con la medesima formula. Non c’è alcun colpevole, ma le persone continuano a morire. «Dai nostri dati, la “latenza mediana” del mesotelioma è più vicina ai 50 che ai 40 anni», conferma Carolina Mensi, responsabile del Registro della Lombardia. In futuro, quindi, ci saranno altri malati.
Quasi tutti i processi relativi all’amianto si concludono con assoluzioni, che contraddicono i giudizi di condanna di primo e secondo grado. Non potendo stabilire, temporalmente, il momento esatto in cui una cellula da benigna diventa maligna e scatena la malattia, appare difficile identificare quale «dirigente aziendale in posizione di garanzia» debba rispondere della morte di un lavoratore avvenuta fino a cinquant’anni anni dopo l’esposizione. Eppure, il nesso causale tra il contatto con le fibre e l’insorgenza del mesotelioma rappresenta un punto di certezza della Medicina del lavoro. Quello che non si dice è che nei tribunali un esiguo numero di consulenti di parte, ben pagati dalle aziende, mettono in atto una «strategia del dubbio», sostenendo tesi minoritarie e contrarie a quanto è condiviso dalla comunità scientifica.Si preferisce risarcire le vittime - con somme tutto sommato modeste - piuttosto che assumersi la responsabilità legale delle morti, un compromesso pur di non riconoscere le colpe. Gli esborsi sono considerati «danni collaterali» accettabili. Così, le cause civili diventano quasi l’unico modo per ottenere giustizia.
Antonio Proietti è stato uno dei tanti operai che ha lavorato come manutentore idraulico nella Caserma «Guido Reni» a Roma, oggi sede del museo Maxxi. Per 28 anni. Nel 2020 è morto per un mesotelioma. Non ci sono mai state fabbriche di amianto nella Capitale, ma in molti edifici pubblici e privati è stato utilizzato. E nonostante si sapesse bene che il materiale era presente nella caserma, non ci si è fatti scrupolo a impiegare Proietti nelle manutenzioni, a costante contatto con tettoie, tubazioni, vasconi in eternit, anche dopo l’entrata in vigore della legge 257/92, che vieta l’uso dell’amianto. «Il Tribunale di Roma ha condannato il ministero della Difesa, e dunque lo Stato italiano, a risarcire la vedova Proietti anche del danno catastrofale, ovvero il danno che ha patito il marito e che finisce in eredità» spiega Daniele Marra del Foro di Roma, legale che ha assistito la vedova. Vari operai nella caserma sono morti di tumore, ma nessuno ha mai fatto causa. «Ci ripetevano: non vincerete mai» dice la figlia di Antonio, Daniela Proietti. «Invece, ci è stata data ragione in primo grado, anche perché il mesotelioma è l’unico tumore direttamente riconducibile all’amianto. Ma i soldi non risarciscono la perdita. Vorremmo avere papà qui con noi».