A 44 anni dalla strage di Ustica, abbiamo perso la speranza di trovare un colpevole
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A 44 anni dalla strage di Ustica, abbiamo perso la speranza di trovare un colpevole

La tragedia del volo Itavia è ancora senza un perché

  • Qual è la verità, una tra quelle periziali, giudiziarie, oppure quelle più amplificate mediaticamente e condivise sui social network?
  • Missile? ordigno? battaglia aerea? l'abbattimento del DC9 Itavia resta avvolto dall'incertezza. Con opposti esiti giudiziari che accentuano il senso di ingiustizia.

Quarant'anni da quando il DC-9 dell'Itavia, volo IH-870 Bologna – Palermo, precipitò nel Tirreno a 116 km da Ustica uccidendo 81 persone. Un tempo abbastanza lungo perché intere generazioni abbiano ormai perso ogni speranza sull'idea di arrivare alla verità. Ma quale verità, una tra quelle periziali, giudiziarie, oppure quelle più amplificate mediaticamente e condivise sui social network?

Difficile capire oggi tra tesi suggerite da concretezze che non si vogliono più considerare, perdendosi tra le divergenze degli esperti e gli scenari basati sul sospetto di una battaglia aerea che si vuole a tutti i costi vera, soprattutto da chi ha sentimenti anti-atlantici. Ci sono migliaia di pagine prodotte nei dibattimenti che producono verità in contrasto tra loro e un oceano di disinformazione, che spinge a una disperata ricerca di qualcosa di nuovo su cui ricominciare a nutrire sospetti, sia quella l'intervista a un marinaio della portaerei che forse neppure era in zona, il quale non ricorda la data esatta in cui vide, sempre forse, degli aerei rientrare senza armamento, Oppure come accaduto soltanto qualche giorno fa con lo spuntare presso la Rai di un miglioramento di quanto ottenuto dalla lettura del registratore dei suoni nella cabina del DC-9 dell'Itavia, nastro nel quale si fa emergere che quel «Gua...» pronunciato dal copilota Enzo Fontana sia in realtà un «Guarda, cos'è?». E su questo via alle supposizioni e ai palinsesti tv. Neppure fosse una frase rara se detta da un pilota e non, invece, qualcosa che i piloti si chiedono spesso quando osservano il mondo attraverso i finestrini della cabina.

Il punto è che da un lato pur di strappare ascolti in televisione e mostrarsi vicini ai parenti delle vittime si cerca qualcosa a orologeria, e dall'altro non si accetta – esattamente come nel caso di altri casi giudiziari italiani – che qualche grave errore nelle indagini sia stato effettivamente commesso, peraltro in un periodo caldo della nostra storia nazionale nel quale le pressioni sui chi indagava abbondavano. Non soltanto per l'epoca degli anni di piombo, ma anche per la situazione geopolitica del momento, con i missili americani da piazzare Comiso, i rapporti tesi con Libia, Usa e soprattutto per il supporto che Gheddafi stava dando alla causa palestinese.

Uno studente che oggi voglia addentrarsi nella conoscenza di questa vicenda avrebbe a disposizione una mole di materiale enorme: perizie, controperizie, testimonianze, libri bianchi, matrici sulla compatibilità del relitto con l'evento ipotizzato (cedimento strutturale, bomba nella zona della toilette, onda d'urto, missile di vario tipo), ipotetiche-boutade di ex presidenti della Repubblica come quella di Cossiga (i francesi, con un missile). Uno storico avrebbe il problema di distinguere quali siano i fatti dimostrati oggettivamente con prove reali da quelli dedotti dalle supposizioni dopo anni di amplificazione delle tesi più utili, comode o scomode, più o meno remunerative secondo i casi.

Ustica e il paradosso delle due verità

Siete pronti alle tristi celebrazioni della strage? Sabato 27 giugno saranno trascorsi 40 anni esatti dal disastro che nel 1980 fece inabissare nel mare tra Ponza e Ustica un Dc9 della compagnia Itavia. Tv e giornali sono già pronti a raccontarvi ancora una volta una «verità» che, malgrado la sua fragilità, s'è imposta nella memoria collettiva. E cioè che il Dc9 fu abbattuto da un missile, o forse dalla collisione con un aereo militare: un caccia misterioso, impegnato in un'inconfessabile battaglia aerea che puntava all'abbattimento di un altro jet con a bordo Muammar Gheddafi, il leader libico che nel 1980 americani e francesi volevano morto per il suo supporto al terrorismo internazionale.

È una storia suggestiva, non c'è che dire. Difatti il missile e la battaglia aerea sono entrati in migliaia di articoli di giornale, in libri e film come un fatto sicuramente accertato. Eppure di questa «verità» la giustizia italiana non è affatto sicura. Al contrario, l'ha smentita con la forza di una sentenza definitiva. Il 10 gennaio 2007 la prima sezione penale della Cassazione ha assolto con formula piena dall'accusa di depistaggio Franco Ferri e Lamberto Bartolucci, generali dell'Aeronautica militare. In quel processo, che è durato 277 udienze con più di 4 mila testimoni, e sì è basato su 1 milione e 750 mila pagine d'istruttoria, 13 anni fa la giustizia ha escluso che il disastro di Ustica sia da ricondurre al missile e alla battaglia aerea.


Quell'assoluzione ha confermato per sempre le conclusioni cui il 15 dicembre 2005 era giunta la Corte d'assise d'appello di Roma. Alle pagine 114 e 115 di quella sentenza si legge: «Nessun velivolo ha attraversato la rotta dell'aereo Itavia, non essendo stata rilevata traccia di essi dai radar militari e civili, le cui registrazioni sono state riportate su nastri da tutti i tecnici unanimemente ritenuti perfettamente integri». E prosegue: «A ciò vanno aggiunti i vari accertamenti da cui risulta che tutti gli aerei militari italiani erano a terra, che i missili di dotazione italiana erano tutti nei loro depositi, che gli aerei militari alleati non si trovano nella zona del disastro, e che nell'ora e nel luogo del disastro non vi erano velivoli di alcun genere». Poco più in là, i giudici scrivono con chiarezza: «Le ipotesi dell'abbattimento dell'aereo a opera di un missile (…) non hanno trovato conferma, dato che la carcassa dell'aereo non reca segni dell'impatto del missile». Smentiscono anche la collisione in volo, in quanto «con ragionevole certezza tutti gli esperti, dopo un attento controllo sul relitto ricostruito, hanno escluso che su di esso fossero presenti tracce caratteristiche d'impatto con altro velivolo».
Le conclusioni sono nette: «Tutto il resto, non essendo provato, è solo frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra, calda o fredda, un intervento della Libia, la presenza sul posto del suo leader Gheddafi, e così via, fino a cercare di escogitare un (falso) collegamento con la caduta di un Mig di nazionalità libica avvenuto in data successiva».
Insomma: no missile, no battaglia aerea, no collisione: per la giustizia penale, sono soltanto invenzioni della stampa. Quindi la verità giudiziaria contraddice in pieno la «verità» che da anni è universalmente accreditata. Vale la pena ricordare che il lungo processo penale si è basato su una massa di perizie affidate a 11 tra i più qualificati tecnici a livello internazionale (e nessuno di loro era francese o americano), in gran parte convinti il volo fosse caduto per una bomba esplosa nella toilette posteriore del Dc9. In primo grado, la Corte ammise che su quell'ipotesi esistevano «prove oggettive, consistenti in particolari deformazioni e improntature di frammenti tutti provenienti dalla zona toilet, e certamente determinatesi al momento del collasso in volo della parte di struttura adiacente alla toilet, i quali erano spiegabili solo con elevati valori di pressione generatisi nella zona in esame».
In particolare, secondo i periti, un tubo della toilette presentava chiare tracce di una compressione da esplosione. Ma nemmeno quella tesi è passata. La giustizia penale ha detto «no» anche all'ordigno: «Nel caso della bomba all'interno dell'aereo» si legge nella sentenza d'appello, confermata in Cassazione, «bisogna ritenere che l'ignoto attentatore fosse a conoscenza del dato che l'aereo sarebbe partito da Bologna con due ore di ritardo per poter programmare il timer con due ore di ritardo per l'esplosione, visto che di criminali kamikaze che potessero essere a bordo non vi era traccia».


È una logica che non fa una grinza. Ma la stessa logica, alla fine del processo, ha escluso soprattutto le discutibili «verità» cui ormai sembriamo assuefatti. Il rifiuto dell'ipotesi della battaglia aerea, scrivono per esempio i giudici penali, «trova conforto anche nel silenzio di un aereo dell'Air Malta, che seguiva a breve distanza il velivolo Itavia ed è atterrato tranquillamente a Malta senza segnalare alcunché di irregolare lungo la sua rotta: se vi fossero stati altri velivoli, certamente li avrebbe visti e comunicati». I giudici, insomma, cassano le ipotesi missile, battaglia aerea, collisione. E lo fanno con parole durissime: sono «fantapolitica o romanzo, che potrebbero anche risultare interessanti se non vi fossero coinvolte 81 vittime innocenti».

Poi c'è la giustizia civile. Che a sorpresa è andata per la strada opposta. A partire da una sentenza depositata il 25 luglio 2003 nel piccolo tribunale di Bronte (Catania) dal giudice onorario aggregato Francesco Batticani, cioè un avvocato con funzioni di giudice. Il Goa stabilisce che il Dc9 sia stato abbattuto da un missile. Da quella sentenza, obiettivamente irrisoria per peso tecnico e per disparità di approfondimenti rispetto alla verità stabilita dalla Cassazione penale, è uscito un vero ginepraio di sentenze, dagli esiti a volte grotteschi.

Una condanna di primo grado del Tribunale di Palermo del 10 settembre 2011, per esempio, accredita più cause parallele del disastro, ma non riesce nemmeno a sceglierne una. I giudici scrivono nella stessa frase, testualmente, che il jet Itavia è caduto «a causa dell'operazione di intercettamento realizzata da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del Dc9 viaggiano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell'esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l'aereo nascosto, oppure di una quasi collisione verificatasi tra l'aereo nascosto e il Dc9».


La giustizia bifronte, in realtà, ha un solo senso: un diverso risultato economico. Se la causa riconosciuta della strage fosse stata il cedimento strutturale dell'aereo o una bomba, come sostenevano molti periti in sede penale, la responsabilità di non avere vigilato sulla sicurezza del Dc9 sarebbe ricaduta sull'Itavia, che però nel frattempo è fallita; se la causa fosse stata invece un missile o la battaglia aerea, la responsabilità sarebbe passata allo Stato italiano. E alla fine è andata così. La giustizia civile ha condannato i ministeri dei Trasporti e della Difesa a pagare continui risarcimenti ai familiari delle 81 vittime. Prima hanno ricevuto indennizzi individuali per 200 mila euro, un totale di quasi 16 milioni; poi, nel 2004, in 141 hanno ottenuto anche un vitalizio di 1.864 euro netti mensili, rivalutabili di anno in anno, per un totale stimato di 47 milioni alla fine del 2019.

È ovvio che le povere vittime e i loro parenti debbano avere giustizia. Certo, lascia perplessi il risarcimento riconosciuto alle figlie di secondo letto del vedovo di una delle 81 vittime. Le due donne, nate nel 1982 e nel 1983 e prive di legami affettivi con la vittima, hanno chiesto un milione di euro e ne hanno ottenuti 100 mila a testa. Ma i pagamenti non si fermano. Lo scorso 20 aprile, sempre in sede civile e per la tesi mai provata del missile, l'Italia è stata condannata in via definitiva a risarcire gli ex proprietari dell'Itavia con altri 330 milioni.


Quarant'anni dopo, insomma, di Ustica resta soltanto il senso di un'immensa ingiustizia. Parafrasando Tommaso Besozzi, il cronista che nel 1950 scoperchiò i misteri che avevano coperto la morte del bandito Salvatore Giuliano, si potrebbe dire che 14.600 giorni dopo quel maledetto 27 giugno 1980, su Ustica c'è una sola certezza: gli 81 poveri morti. Perché due verità opposte sono troppe. E servono solo a nascondere la verità.

Il restauro della Dc9 Itavia

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Itavia DC-9 airplane restored

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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