La vera storia di un ex «Bestia di Satana»
Nel suo nuovo libro Gianluca Herold ripercorre le terribili vicende di Andrea Volpe, ex membro del famigerato gruppo satanista.
«Il più bel trucco del diavolo è farti credere che non esiste». Il breve aforisma baudelairiano è servito a Gianluca Herold come spunto per il titolo del suo libro: «Il più bel trucco del diavolo», uscito lo scorso 29 ottobre edito da Rizzoli. La storia è quella di Andrea Volpe, il più famigerato membro delle «Bestie di Satana», il gruppo satanista che fra la seconda metà degli anni Novanta e il 2004 condusse un’esistenza basata su alcol, droghe, sevizie e agghiaccianti delitti. Quattro, ad essere esatti, le vittime accertate: Fabio Tollis e Chiara Marino, uccisi nel gennaio del 1998, Andrea Bontade, indotto al suicidio nel settembre dello stesso anno, infine Mariangela Pezzotta, ferita a colpi di pistola e finita a badilate nel gennaio del 2004.
Intervistato da Panorama, GianlucaHerold racconta come è nata l’idea di scrivere un libro su Andrea Volpe.
La prima volta in cui ho pensato che ci fosse una storia dietro questo terribile fatto di cronaca è stato quando lessi un articolo di giornale. Parlava di quest'uomo pluriomicida, satanista, con la quinta elementare, tossicodipendente e disoccupato che usciva di galera prossimo alla laurea in scienze dell’educazione e convertito alla chiesa evangelica. Lì per lì la cosa non mi ha convinto, sembrava la classica storia troppo bella per essere vera; allo scetticismo è tuttavia subentrata la curiosità. Mi son detto: «che sia vero o meno, c’è una storia da raccontare».
Il fatto di cronaca è ben noto, di che genere di libro parliamo? E come si è sviluppato il processo di scrittura?
Tecnicamente parlando si tratta di un non-fiction novel, ovvero un racconto che si presenta come un romanzo, ma con alle spalle un lungo lavoro di ricerca per aderire meticolosamente ai fatti realmente accaduti. Ho lavorato su tutte le fonti disponibili: atti giudiziari, documentari, articoli di giornale, podcast. Una volta fatto questo ho iniziato a parlare con le persone, partendo però dai parenti delle vittime, mi sembrava giusto avvicinarmi a questa storia sentendo prima le testimonianze e il dolore di chi aveva perso un proprio caro. Solo dopo ho iniziato il mio lavoro con Andrea Volpe. Con lui abbiamo fatto più di cento interviste, e da lì in poi il lavoro di ricerca e scrittura è stato fatto in contemporanea, andava tutto in parallelo.
La vicenda è nota al grande pubblico soprattutto per il fattore “satanismo”, il suo ruolo era centrale o è stato eccessivamente enfatizzato?
Il satanismo per loro era una faccenda seria e reale, allo stesso tempo però la loro conoscenza del fenomeno era quantomeno approssimativa. Faccio un piccolo esempio: durante i processi venne chiesto quali fossero i libri o i riferimenti a cui le Bestie di Satana si rifacessero, e gli imputati indicarono il Necronomicon. Peccato che non sia un’opera satanista ma uno pseudobiblion, ovvero un libro mai scritto ma solo citato come se fosse reale, in questo caso un espediente narrativo di H. P. Lovecraft. Quindi sì, il ruolo del satanismo è stato certamente ingigantito, ma non solo dai media, lo stesso Volpe inizialmente me ne parlava come di un elemento studiato e strutturato. Nel libro io ne do conto per quello che a me è sembrato leggendo le carte e gli atti, ovvero un «satanismo fai da te», che però, unito al loro stile di vita fatto di abuso di alcol, sostanze stupefacenti e violenza, ha portato a esiti tragici.
Quindi anche Volpe ingigantiva la cosa?
Inizialmente sì, poi però, quando ero circa a metà del lavoro, mi ha chiamato e mi ha detto: «eravamo un gruppo di scappati di casa», e lì ho tirato un sospiro di sollievo, era importante che lui capisse come stavano realmente le cose per poter proseguire il lavoro. Infatti ha aggiunto: «Questo libro, indipendentemente da tutto, mi ha fatto prendere consapevolezza di quello che eravamo davvero».
Nel libro si parla delle violenze subite da Volpe nell’infanzia, la violenza porta altra violenza?
Così sembrerebbe. Una cosa che ho capito scrivendo questo libro è che nessi causa-effetto stringenti non ne esistono. Il suo vissuto non può giustificare le sue azioni, può solo essere utile a contestualizzarle, a capire da dove è venuta questa “Bestia” che Volpe si porta dentro. Detto questo, immergendomi nella sua infanzia ho avuto la netta sensazione di una “catena di violenza” intergenerazionale. Il nonno di Volpe che picchiava il padre, il padre che picchiava la madre, la madre che picchiava il figlio, e infine il figlio che ha portato la catena di violenza alle più estreme conseguenze, tristemente note.
Eppure nel libro racconti che da bambino Volpe era una persona fragile, come è avvenuta la sua trasformazione?
Lui è stato un bambino non visto dai genitori, lasciato solo, che aveva particolarmente bisogno di attenzioni. E che si è sentito tradito proprio dalle persone che lo avrebbero dovuto aiutare, in casa e fuori. Parlo di abusi fisici e psicologici subiti durante l'infanzia e la giovinezza. La sua è la storia di una costante ricerca di amore. Trovato sempre nei posti sbagliati. Così ha cominciato a provare odio per le persone, e piacere nel fare loro del male. Oggi sa di soffrire di disturbi psichiatrici, in lui convivono il bambino bisognoso di affetto e la “bestia”. Per usare una metafora che cito nel libro: è come se la sua mente fosse una moneta annodata a uno spago, e a seconda delle circostanze oscilla mostrando l’una o l’altra faccia.
Insomma chi è Andrea Volpe?
È una persona che si è trovata nella situazione di dover negare sé stesso per sopravvivere, e nel farlo ha commesso crimini atroci. Però a un certo punto, dal carcere in poi, ha fatto anche incontri positivi. Leonardo De Chirico, il pastore evangelico che l’ha convertito, la dottoressa Rossi, sua psichiatra, e Sebastian, il suo attuale marito conosciuto in carcere. Se anche grazie a loro riuscirà a riprendere e mantenere il contatto con quello che è stato prima di negare sé stesso e intraprendere il percorso di droga, alcol e crimini, secondo me potrebbe fare anche cose positive nella vita.
Ma come convive con quello che ha fatto?
Fino a pochissimo tempo fa, dei primi due omicidi e dell’induzione al suicidio non gl’importava affatto, a volte non gli venivano in mente nemmeno i loro nomi, li chiamava “quelli là”, si rapportava con loro con distacco e freddezza. L’omicidio dell’ex fidanzata Mariangela invece ha lasciato il segno, non a caso subito dopo ci fu il crollo e la confessione. Ora, però, sembra esserci stato un cambiamento: mentre il libro andava in stampa mi ha detto che cominciava a provare qualcosa anche nei confronti delle prime tre vittime. Sicuramente la terapia e la malattia di Sebastian hanno influito: adesso che suo marito potrebbe morire da un momento all’altro si mette nei panni dei parenti delle vittime, ora forse è più consapevole…