Cappato: "Vi racconto la mia battaglia insieme a Dj Fabo"
Una vita in difesa delle libertà civili. Intervista al radicale che ha accompagnato il giovane in Svizzera per praticare il suicidio assistito
Gli atei la venerano e i credenti la insultano. «E invece anche molti cattolici la pensano come noi».
Dicono che cavalca la morte ma solo per mettersi in sella ai vivi. «Mi hanno dato dell’assassino». Chi? «Militia Christi. Sono stati condannati a risarcirmi 20 mila euro». Quanto costa un suicidio assistito in Svizzera? «10 mila euro circa, spese di viaggio comprese».
Marco Cappato aiuta a morire ma non ha la faccia da funerale, accompagna le ombre ma non possiede un’auto. «Eppure mi hanno paragonato a Caronte». Anche lui traghettava le anime e si occupava di corpi. «Ma ne prolungava il dolore mentre io voglio scioglierne la tortura».
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C’è chi pensa che abbia trasformato la morte di Fabiano Antoniani, Dj Fabo, in un evento mediatico, in una contesa di aghi e di commi. Prima un’agonia di tweet, poi l’autodenuncia in caserma, la conferenza stampa e infine gli interventi in televisione. «Era una pubblicità necessaria. Oggi i messaggi di gratitudine sono più delle critiche ricevute. Perfino un prete ha chiamato a Radio Radicale per ringraziarmi».
E però sembra quasi che cerchi la condanna. «Rischio fino a quattordici anni di reclusione per aiuto al suicidio». Quante volte l’hanno arrestata? «Una volta a Manchester. Fermato due». Non è il solito protagonismo radicale? «La politica è sempre stata corpo. È evidente che aver aiutato Dj Fabo mi ha reso più forte e noto. Non me ne vergogno e non ci vedo contraddizione. ‘Dal corpo dei malati al cuore della politica’». È il suo slogan? «È il motto dell’associazione Luca Coscioni di cui sono il tesoriere». Ha raccontato che aiuta finanziariamente chi vuole morire. «È vero. A Dominique Velati abbiamo pagato il biglietto per recarsi in Svizzera».
Cappato abita a Milano, vicino a piazzale Dateo, dove i palazzi sono più solidi e carichi di ricordi antichi. «Mi piacciono i lembi, i margini». È per questa ragione che si occupa di zona grigia, partito transnazionale e di frontiere? «Pierpaolo Pasolini diceva che fosse necessario illuminare gli angoli. Ci provo». Cita Pasolini ma ha studiato economia. «Alla Bocconi ma non frequentavo». Era disobbedienza o indolenza? «Sono stato sempre uno studente da sei. In condotta avevo otto». Molti radicali vengono da scuole cattoliche e hanno scelto la militanza come forma di psicanalisi. È tra questi? «Anche io ho frequentato scuole cattoliche ma solo fino alla quinta elementare. Poi scuola pubblica». Dove? «A Monza».
Cappato è brianzolo, figlio di un ex dirigente di azienda e di un ex insegnante. «Mio padre si chiama Alberto e mia madre Alberta, adesso si è aggiunta mia cognata». Pure suo fratello fa politica con il corpo? «Venne eletto nel 1992 consigliere comunale. Lista Pannella-Cappato-Taradash». Si è avvicinato al partito per emularlo? «È lui il vero primo radicale. In realtà io ero più un anarchico. I radicali mi sembravano quasi moderati. Sono sempre stato un antiproibizionista».
Com’era la sua famiglia? «Ho annusato i sapori liberali e fatto buone letture. Mia madre era iscritta ai radicali mentre mio padre era segretario del partito repubblicano di Monza». Se le chiedesse di aiutarlo a morire lo accompagnerebbe? «Lo farei. La prima volta che andai alla Dignitas fu proprio mio padre a prestarmi l’auto».
La Dignitas è la clinica di Pfaffikon, a pochi chilometri da Zurigo, dove hanno scelto di praticare il suicidio assistito Dj Fabo e pure Gianni Trez, un pensionato veneziano malato di tumore; un altro che si è arrampicato in Svizzera per non precipitare in Italia.
«La verità è che quelle cliniche sono l’alternativa al balcone, alla morte violenta come quella di Mario Monicelli e Carlo Lizzani. In Italia ogni anno i sucidi sono più di mille». Ne parla come fosse la montagna incantata. «È invece un luogo di normalità, casette di legno e decoro». Quanti ne ha accompagnato alla Dignitas? «Prima di Fabiano, Piera Franchin. E sbagliai pure strada». Per paura? «In Svizzera di Pfaffikon ce ne sono due. Dovetti fermarmi in una pizzeria italiana e chiedere quale fosse quella giusta». Se non si andasse a morire ci sarebbe da ridere. «Ero imbarazzato. Durante il viaggio non avevamo fatto altro che litigare per via della politica. Era una militante che, a proposito di scissione, aveva scelto di seguire Rifondazione comunista». Ha scelto il suicidio assistito? «Non voleva ingerire il barbiturico ma chiedeva che le venisse iniettato per endovena. I medici si sono rifiutati perché ritennero che la sua volontà non fosse così salda. E pensare che aveva già gettato le scarpe nel cestino…». Siete ritornati insieme? «Si, ed era disperata, perché voleva riprovarci ma non sopportava l’idea dell’attesa». Ci ha riprovato? «Un mese dopo e ci è riuscita. Era malata di cancro».
Cappato dice che Dj Fabo non era spaventato di morire ma di non riuscirci, non temeva i giornali ma i giornalisti. «Fabo si era pentito di aver anticipato a “Le Iene” di avere già l'appuntamento con la Svizzera ». Perché? «Credeva che i cronisti ci inseguissero e che con qualche pretesto le autorità potessero fermarci».
“La vita deve essere dignitosa, la morte può essere opportuna”
Dopo la sua morte, in televisione, sono tutti diventati esperti di farmacologia, terapie del dolore, e non si contano i teologi che accusano e gli avvocati che perdonano.
«E però basta chiedere e passeggiare per strada per accorgersi che oggi abbiamo vinto. Il consenso sul suicidio assistito è cosi unanime che mi imbarazza. I tassisti, per incitarmi, non mi fanno pagare la corsa. In Italia, grazie alla lotta di Dj Fabo, la morte è tornata a essere una dinamica della vita e non più un segreto da celare». Ha reso chiassosa la morte. «Volevo solo far parlare di libero arbitrio. Io per primo credo che la morte abbia bisogno d’intimità e carezze e non di flash e telecamere». Lo dice proprio lei? «Accompagno ma rimango dietro la porta».
Cappato, prima di arrivare in Svizzera, ha guidato per cinque ore, si è fermato in due aree di servizio. Prima a Saronno e poi subito dopo il Gottardo. L’automobile era grigia. Una Citroen che ci mostra. Ci sono ancora le cannule e il respiratore di Dj Fabo. Li guardiamo insieme.
Non la angosciano? «Parlando di morte ho imparato a non temerla». Da quanto tempo la frequenta? «Dal 2006, da quando Piergiorgio Welby mi chiese di aiutarlo a morire. Ero riuscito a trovare il medico belga disposto a praticarne l’eutanasia. Quando tutto era pronto Piergiorgio decise di farne una battaglia civile e di scrivere al presidente della Repubblica. Non ho iniziato nulla semmai ho solo proseguito».
Da allora, Cappato, dice di ricevere più duecento lettere l’anno. Insieme a Mina Welby e Gustavo Fraticelli ha fondato un’associazione che si chiama “Soccorso Civile” e il sito “Sos Eutanasia”. «E poi c’è l’Associazione Coscioni».
L’Associazione Coscioni è nata nel 2002 su iniziativa di Luca Coscioni, docente universitario malato di sclerosi laterale amiotrofica, ha ottenuto il sostegno di 100 Premi Nobel di tutto il mondo a favore della ricerca sulle cellule staminali embrionali. Oggi si occupa di ricerca scientifica, legalizzazione dell'eutanasia e del testamento biologico, diritti delle persone con disabilità, fecondazione assistita e eliminazioni dei divieti della legge 40. «Ci scrivono in tanti e a tutti cerchiamo di rispondere».
Il più giovane che gli ha scritto, ricorda Cappato, aveva quindici anni. Da adolescente si interrogava sulla fine? «L’idea di morire mi faceva disperare. E ricordo ancora il primo lutto, la scomparsa di mio nonno. Si chiamava Massimo». Parla della morte ma dice che oggi non la tormenti. «Fino all’ultimo momento ho chiesto a Dj Fabo se avesse cambiato idea. Non è vero che ho il culto della morte. Così come non è vero che non mi consumi. Ricordo ancora la morte di Rino Spampanato. Era un attivista radicale autodidatta, mio coetaneo, mio amico. Ha costruito il primo sito internet del partito radicale. È scomparso nel 2003. Ancora oggi l’immagine della sua salma mi impressiona».
Ma non piange e si porta questo faccione allegro, esibisce l’aria scanzonata del giramondo e l’incoscienza del pensiero radicale. Indossa perfino le cuffie che le appuntiscono le orecchie come un elfo.
«E invece mi commuovo e mi capita di piangere». A un funerale? «Quando sono entrato nella camera ardente per salutare Marco Pannella». In vita vi siete separati e nella morte vi siete ritrovati. «Lui diceva che non eravamo più in sintonia. Io gli riconoscevo l’insuperabile creatività e la statura inarrivabile. Ma tutto può Pannella tranne che risorgere».
Tra radicali litigate per eccesso di argomenti e per stare insieme avete bisogno di allontanarvi. È riuscito a scontrarsi, in televisione, perfino con Maria Antonietta Coscioni. «Purtroppo è un difetto ma anche una virtù radicale. Siamo abituati agli scontri di potere ma senza avere potere».
Ma dei Radicali è stato presidente, europarlamentare, consigliere comunale a Milano. «E mi è servito. Da consigliere, durante la giunta di Giuliano Pisapia, ho conosciuto mia moglie». Come si chiama? «Simona. È una giornalista. Venne per contestarmi e ha finito per sposarmi». Da quanto? «Cinque anni». Ha figli? «No, ma non mi dispiacerebbe averne». Della vita ha cominciato dalla fine ma non ha visto l’inizio. «Non ancora. Non mi è mai capitato di assistere a una nascita». Gli aggettivi della morte sono sempre caldi e lenti: dolce, buona, serena. «Welby mi disse: ‘Sono preoccupato. È la prima volta che muoio’. La morte non è mai buona semmai una conseguenza. Penso che siano aggettivi sbagliati». Li cambiamo? «La vita deve essere dignitosa e la morte opportuna». È il suo epitaffio? «È presto per avere epitaffi, spero di aver ancora altro di interessante da fare».