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ANSA/ALESSANDRO DI MARCO
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Caso Embraco, il problema vero è la politica industriale

Il lavoro del ministro Calenda per l'azienda gestita da Whirlpool è ineccepibile ma apre un grande tema: dove vanno gli investimenti nel nostro Paese

Scrive Peter Pan: “Niente politica sulle nostre teste”. Replica Carlo Calenda: “Il mio impegno non cambia anche se aderite in massa a Lega e M5S. Primo perché è il mio lavoro e secondo perché avete diritto ad esigerlo dal governo in carica”.

Botta e risposta, è solo uno degli innumerevoli cinguettii tra il ministro dello sviluppo e i suoi follower su Twitter. Loro attaccano e lui li chiama per nome, precisa, puntualizza, affonda il colpo, con stile e massima correttezza. Un esempio di come si possono usare i social media.

Ma da quando è scoppiata la vertenza Embraco, Calenda ha fatto un salto in avanti, si è schierato più nettamente che mai, è arrivato a definire "genta(glia)" i dirigenti della multinazionale americana Whirlpool che vuole chiudere l’azienda piemontese dove si rifornisce di compressori per spostarla in Slovacchia perché il costo del lavoro è inferiore e non di poco (10,4 euro l’ora contro 27,8) e gli incentivi (fiscali e non solo) sono più elevati.

Che cosa è successo? Lo straborghese Calenda, l’ex amico e collaboratore dell’aristocratico Luca Cordero di Montezemolo, ha scoperto la lotta di classe ed è diventato operaista? La domanda è perfida, ma fondata. In realtà, il ministro non è nuovo a toni duri e trattative toste, lo si è visto già in molte delle vertenze aperte al ministero, anche nei confronti della stessa Whirlpool che in Italia ha assorbito tutto il possibile nella filiera degli elettrodomestici bianchi, dalla Ignis alla Ariston.

Lo si è sentito con l’Ilva che pure resta un rompicapo lasciato in eredità al prossimo governo. E lo hanno conosciuto bene anche a Bruxelles dove non a caso Matteo Renzi lo aveva mandato scavalcando, con grande scandalo delle feluche, la tradizione diplomatica, allo scopo di alzare la voce (con cognizione di causa) a difesa degli interessi nazionali.

I suoi meriti

Il ministro fa il suo lavoro, come dice egli stesso, e lo sta facendo bene. Cerca di difendere 500 posti di lavoro e non è vero che ha sposato un atteggiamento anti mercato e anti concorrenza: sa bene che una produzione come quella dell’azienda di Chieri è destinata per sua natura a essere delocalizzata in paesi a più basso costo; pur con tutti i limiti storici David Ricardo l’aveva azzeccata due secoli fa.

E sta cercando una soluzione, anche mettendo in campo gli strumenti dell’intervento pubblico come il fondo Invitalia.

Calenda ce l’ha con la Whirlpool non perché il gruppo faccia i propri interessi, ma perché non concede nemmeno la cassa integrazione e un periodo di tregua per cercare un impiego alternativo della forza lavoro e degli impianti.

A Margrethe Vestager, commissaria europea alla concorrenza, che ha impedito di creare in Italia una bad bank per assorbire i crediti marci con la scusa del divieto agli aiuti di stato, chiede di non usare due pesi e due misure. Fin qui non fa una piega, anche i liberisti puri e duri non hanno nulla da eccepire, tanto meno i sindacati.

Il problema: la politica industriale

Il punto debole non è il ministro, ma quella che si chiama, riesumando una vecchia definizione, politica industriale. La Embraco non è la Brembo, entrambe sono aziende fornitrici, l’una nell’indotto degli elettrodomestici l’altra in quello dell’auto, ma i compressori della Embraco si possono produrre anche in Slovacchia, i freni della Brembo non li fanno nemmeno in Germania (e infatti li vende a tutti i costruttori tedeschi).

L’Italia è riuscita a mantenere la sua posizione di secondo paese manifatturiero d’Europa nonostante abbia attraversato la più grave crisi del secondo dopoguerra. Ciò è avvenuto perché l’avanguardia dell’industria ha saputo spostarsi sui segmenti alti del ciclo produttivo, o meglio della catena del valore.

Il boom delle esportazioni lo dimostra. Ma vendere all’estero non è tutto, la stessa grande ristrutturazione va fatta all’interno, non solo nel resto della manifattura, rimasta in retroguardia, ma soprattutto nei servizi dove siamo molto, molto indietro: così che sono inefficienti per i consumatori e fuori dai confini non li vuole quasi nessuno, a differenza dei prodotti industriali.

Dunque, non si tratta di salvare la Embraco così com’è, ma di avere dieci, cento, mille altre Brembo e di estendere all’intera economia la modernizzazione. Come si fa? È lo stato il veicolo migliore? Dove sono i nuovi capitali coraggiosi, in Italia o all’estero? Queste le domande alle quali andrebbe data una risposta. E qui non c’entrano niente la Slovacchia, l’Europa, la globalizzazione, è una questione tutta domestica. Sono cose da fare per gli italiani, per farli lavorare e vivere meglio.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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