Caso Yara: perché Bossetti è stato condannato
Il processo per l'omicidio della ragazza di Brembate ha seguito un filo logico preciso. Che ha portato alla sentenza dell'ergastolo
Tutto come previsto, nessuna sorpresa. Le motivazioni con le quali i giudici della corte d'asside di Bergamo hanno condannato Massimo Bossetti all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio seguono la linea tracciata dal pubblico ministero Letizia Ruggeri e la rafforzano con alcuni elementi evidenziati con forza dagli avvocati della famiglia Gambirasio durante le discussioni finali.
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Il dna
La struttura è questa. Si parte dalla prova regina, il dna, considerato "privo di qualsiasi ambiguità" e "insuscettibile di lettura alternativa". Un dna non smentito né posto in dubbio da "acquisizioni probatorie di segno opposto", anzi, e qui i giudici evidenziano un indizio emerso durante il dibattimento, "indirettamente confermato da elementi ulteriori, di valore meramente indiziante, compatibili con tale dato e tra loro". Appare chiaro il riferimento alle contronalisi alle quali la famiglia Bossetti si è sottoposta in privato a Torino, che hanno confermato e rafforzato il risultato dell'esame genetico dei ris.
Il movente
Il punto specifico in cui i giudici di Bergamo si spingono oltre la posizione dell'accusa è quello del movente, per il quale il pubblico ministero aveva detto in aula che non era possibile "individuare un movente certo". Per la corte d'Assise il movente è sessuale, e si ricava da una serie di indizi: il reggiseno slacciato di Yara, gli slip tagliati, le ricerche al computer di casa Bossetti, alcune delle quali sono "sicuramente riconducibili a lui", e perfino le lettere del muratore scritte dal carcere a Gina.
Su questo vince la parte civile rappresentata dagli avvocati Pelillo e Pezzotta, che incassano un altro risultato positivo con l'intercettazione ambientale in carcere tra Bossetti e la moglie Marita, dalla quale si evince che "quella sera rientra più tardi e non dice mai alla moglie dov’è stato e cosa ha fatto".
Gli indizi
Tra gli indizi, viene dato il peso che merita ai tabulati telefonici, che non vengono acuisiti come prova regina ma come elemento rafforzativo del fatto che Bossetti la sera del 26 novembre "non era altrove".
Anche la dinamica, che fino a oggi veniva considerata in qualche modo figlia di una situazione confusa, con l'assassino che sferra colpi in preda al panico e poi fugge, viene definita dai giudici nel senso più pesante.
Bossetti "non ha agito in modo incontrollato, sferrando una pluralità di fendenti, ma ha operato sul corpo della vittima … per un apprezzabile lasso temporale, girandolo, alzando i vestiti e tracciando, mentre la ragazza era ancora in vita, dei tagli lineari e in parte simmetrici, in alcuni casi superficiali, in altri casi in distretti non vitali e, dunque, idonea a causare sanguinamento e dolore ma non l’immediato decesso". Dopodiché, scrivono i giudici, "ha lasciato la vittima ad agonizzare in un campo isolato e dove non è stata trovata che mesi dopo”. In questo caso respinta la battaglia della difesa che voleva Yara morta altrove e poi trascinata sul campo di Chignolo.
Difesa respinta anche su quello che credeva fosse un dato già ribaltato durante il dibattimento, ovvero la presenza di calce sul corpo di Yara. Per i giudici l'attivià professionale di Bossetti spiega l’inusuale concentrazione sul cadavere di particelle di calce e di sferette di metallo.
Bossetti condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara