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ANSA/ GUIDO MONTANI
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La Cassazione: l'azienda può spiare i dipendenti

Una sentenza del 27 maggio dice: la direzione del personale può anche creare un falso profilo su Facebook per controllare i suoi lavoratori

In questi giorni si sta discutendo animatamente delle novità in materia di controllo dei dipendenti aziendali ovvero delle novità introdotte dal "decreto semplificazioni" del Jobs act, varato dal governo Renzi l'11 giugno e prossimamente all'attenzione del Parlamento. In quel decreto si tratta di controlli resi possibili sia sui dispositivi informatici forniti dal datore di lavoro ai dipendenti (tablet, telefoni...), sia su quelli di proprietà del dipendente stesso.

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Ma mentre i sindacati gridano all'attacco e la Confindustria e il ministro del Lavoro minimizzano, pochi si sono accorti che la giurisprudenza è già andata oltre. La sezione lavoro della Corte di cassazione, con la sentenza numero 10955 del 27 maggio 2015, ha stabilito qualcosa di ancora più invasivo: e cioè che un'azienda può addirittura creare un falso account di Facebook per indurre un dipendente a chattare e per dimostrare così che non compie il suo lavoro.

È una sentenza a suo modo rivoluzionaria. La vicenda legale nasce nel settembre 2012, con il licenziamento "per giusta causa" di un operaio addetto alle presse stampatrici da parte di un'impresa abruzzese. L'azienda aveva addebitato all'operaio, D.D.L. tre comportamenti indebiti: un giorno si era allontanato dal posto di lavoro per 15 minuti, poi gli era stato trovato nell'armadietto un iPad acceso e infine si era dimostrato che nei giorni successivi si era intrattenuto a conversare su Facebook attraverso il suo cellulare.

L'operaio aveva fatto opposizione al licenziamento, ma la Cassazione gli ha dato torto. In particolare, D.D.L. aveva contestato all'impresa di avere creato un falso profilo di donna su Facebook, e che questa donna fittizia gli aveva richiesto "l'amicizia" al solo scopo di incastrarlo.


La Cassazione ha respinto il ricorso del dipendente. I supremi giudici, infatti, hanno stabilito che "la creazione di un falso profilo Facebook non costituisce, di per sé, una violazione dei principi di buona fede e correttezza nell'esecuzione del rapporto di lavoro". Hanno aggiunto che "il datore di lavoro ha posto in essere un'attività di controllo che non ha avuto a oggetto l'attività lavorativa più propriamente detta e il suo esatto adempimento, ma l'eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente".

Ma la Cassazione si è spinta anche oltre. Perché ha deciso che la stessa localizzazione del dipendente (attraverso Facebook era stato possibile alla direzione del personale verificare che l'accesso al social network era avvenuto all'interno dello stabilimenbto) non configura un comportamento censurabile.

Scrivono i supremi giudici: "La localizzazione del dipendente è avvenuta in conseguenza dell'accesso a Facebook (da parte del dipendente, ndr) attraverso il cellulare e quindi nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato attraverso il sistema di rilevamento satellitare".

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Maurizio Tortorella

Maurizio Tortorella è vicedirettore del settimanale Panorama. Da inviato speciale, a partire dai primi anni Novanta ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i principali processi che ne sono derivati. Ha iniziato nel 1981 al Sole 24 Ore. È stato anche caporedattore centrale del settimanale Mondo Economico e del mensile Fortune Italia, nonché condirettore del settimanale Panorama Economy. Ha pubblicato L’ultimo dei Gucci, con Angelo Pergolini (Marco Tropea Editore, 1997, Mondadori, 2005), Rapita dalla Giustizia, con Angela Lucanto e Caterina Guarneri (Rizzoli, 2009), e La Gogna: come i processi mediatici hanno ucciso il garantismo in Italia (Boroli editore, 2011). Il suo accounto twitter è @mautortorella

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