Che cosa succede in Iran: gli Ayatollah nel mirino
Alla base delle proteste di questi giorni c'è innanzitutto la voglia delle nuove generazioni di non dover più sottostare al regime teocratico
Il nemico dell’Iran è anzitutto esterno, dice la massima autorità del Paese l’Ayatollah Ali Khamenei. E si dice certo che le proteste si fermeranno. Può anche darsi. Ma il vero problema, oggi come domani, resta la teocrazia degli Ayatollah, una forma di potere assolutista che ormai mal si concilia con le esigenze di un popolo che si sta aprendo velocemente all’esterno e alla modernità, e che legge con timore crescente le mosse in politica estera approntate dalla Guida Suprema in Medio Oriente cui il governo del presidente Hassan Rouhani si è dovuto adeguare.
Per capirlo, è utile ripercorrere alcuni passaggi.
Inizialmente, le proteste sono esplose a Mashhad (28 dicembre 2017), città santa per gli sciiti nel nord-est dell’Iran al confine con il Turkmenistan, e hanno avuto come protagonisti un gruppo di religiosi e politici conservatori apertamente ostili al presidente Rouhani.
Mashhad è non solo la città dello sfidante di Rouhani alle ultime elezioni presidenziali, il conservatore Ibrahim Raisi, ma è soprattutto la roccaforte dell'ex presidente Ahmud Ahmadinejad, i cui contrasti (anche personali) con Rouhani sono ben noti in Iran da oltre un decennio.
Nel 2013, quando gli Ayatollah hanno puntato proprio sul religioso moderato per la guida negli anni a venire, Ahmadinejad e i conservatori si sono sentiti traditi dalla stessa Guida Suprema Ali Khamenei, che li ha definitivamente tagliati fuori dalla politica che conta.
A suo giudizio, infatti, le virulente azioni dell’ex presidente soprattutto in politica estera sarebbero potute essere fatali al regime, che invece iniziava a intravedere la possibilità di metter fine alle sanzioni economiche grazie alle aperture di Barack Obama sul nucleare.
Da allora, Ahmadinejad e i suoi collaboratori sono stati colpiti da una serie di arresti e attacchi giudiziari per accuse di attività illecite e corruzione relative all’acquisizione di industrie statali illegalmente avviate alla privatizzazione con il consenso di banche compiacenti.
Il ruolo dei conservatori
Dunque, le manifestazioni odierne sono scaturite anzitutto da una matrice politica interna, corroborate poi da un movente economico tangibile rintracciabile nell’alta disoccupazione, nel mancato sviluppo economico e nella dilagante corruzione. Tutte tesi su cui i conservatori hanno soffiato per gonfiare la protesta.
Tuttavia, se la scintilla è stata provocata dai leader conservatori, essa ha preso quasi subito una piega indipendente che adesso minaccia la stabilità del Paese, per le seguenti ragioni. Non è la prima volta che violente proteste scuotono l’Iran.
Già nel 2009, proprio in seguito alla rielezione di Ahmadinejad, il cosiddetto Movimento Verde spinse migliaia di giovani a manifestare contro supposti brogli elettorali, in aperta critica al governo del presidente. Allora i morti furono ufficialmente quaranta, ma si sospetta che la repressione ne abbia lasciati a terra almeno il doppio.
Le manifestazioni del 2009, però, si erano tenute principalmente a Teheran e nelle grandi città dove i manifestanti chiedevano maggiori libertà politiche.
Le proteste odierne, invece, hanno preso piede soprattutto nelle città minori dove è più alto il tasso di povertà, mettendo apparentemente al centro le sole ragioni economiche e lo stesso Rouhani, reo di non aver messo ancora in sicurezza l’economia nazionale nonostante la fine delle sanzioni.
Quasi subito, però, il vero obiettivo delle proteste è diventato direttamente un altro e ben più pericoloso, ovvero lo stesso leader supremo Ayatollah Ali Khamenei, che guida il paese dal 1989 in seguito alla morte di Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica di cui Khamenei ha preso il posto e raccolto l’eredità.
Le effigi sfigurate e i manifesti con il volto della Guida Suprema strappati sono un sintomo allarmante.
Gli Ayatollah nel mirino
Dalla rivoluzione che nel 1979 ha deposto la monarchia e inaugurato un regime teocratico basato proprio sulla guida spirituale e politica degli Ayatollah, questo fatto è quasi senza precedenti, e perciò mette in discussione direttamente il sistema istituzionale iraniano. Ed è proprio per questo motivo che il tono assunto dalle proteste è molto pericoloso, e deve far riflettere. Non deve sfuggire, infatti, che quella dell’Iran è - insieme al Vaticano - l’unica teocrazia vivente al mondo, dove cioè vige un regime politico assolutista nel quale domina una sola persona, la cui titolarità e il cui potere si fondano sulla credenza in una legge divina. Per quanto concerne l’Iran, è più corretto dire che si tratta di un sistema politico in cui la casta sacerdotale è superiore a ogni altro potere civile. Tale per cui il clero, su presunto incarico divino, si preoccupa non solo della vita spirituale dei sudditi, ma governa il popolo direttamente o delegandone il compito all’autorità civile, che deve però rispondere del suo operato direttamente alla Guida Suprema.
Dagli Ayatollah, inoltre, dipendono i Guardiani della Rivoluzione, meglio noti come Pasdaran, ovvero forze militari istituite con la rivoluzione del 1979 che hanno voce in capitolo su ogni aspetto della vita sociale e che si occupano soprattutto della sicurezza interna ed esterna, più che della corretta applicazione dei principi islamici.
Per svolgere questo compito, il Corpo dei Guardiani ha un proprio esercito, marina, aeronautica e forze speciali che impiega anche all’estero (vedi in Siria).
Il suo organo direttivo - i Basji - è presente in ogni città e moschea, e controlla reti capillari d’informatori tali da renderlo anche uno strumento d’intelligence molto ben sviluppato.
Inoltre, i suoi membri non sono esenti dal possedere capitali e società private che concorrono direttamente al mantenimento del potere politico-economico sul paese.
I Pasdaran rispondono direttamente al comandante in capo. Che, ovviamente, è proprio la Guida Suprema. La loro partecipazione alla vita pubblica li rende in sostanza uno Stato nello Stato, grazie al quale gli Ayatollah riescono a mantenere il potere assoluto sull’Iran.
I nemici esterni
Tutto questo è l’Iran oggi. E c’è chi vorrebbe che finisse molto presto. Le minoranze etniche come azeri, curdi, sunniti, ad esempio. Una parte del popolo iraniano che chiede maggiori libertà civili e un allentamento delle restrizioni religiose. Le classi medio-basse soffocate dal mancato exploit economico promesso da Rouhani. Coloro che non si spiegano l’ingerenza militare dell’Iran nel teatro siro-iracheno e nello Yemen. Il jihadismo di matrice sunnita che, Isis in testa, soffia sul fuoco. E poi quelli che Khamenei ha chiamato i "nemici esterni" ovvero Arabia Saudita, Stati Uniti e Israele, che vedrebbero con favore un cambio di regime in Iran e la fine dell’assolutismo degli Ayatollah. Il che è proprio il punto di caduta di questa storia.
Per quanto forte o debole sia il regime iraniano, il suo aspetto più fragile non consiste tanto nella limitata capacità economica e neppure nella corruzione. Il tallone d’Achille di Teheran è nell’avere al potere una teocrazia che tutela immutati gli ideali di una rivoluzione islamica compiuta ormai quarant’anni fa, della quale però le giovani generazioni dubitano perché ne hanno perso il senso e il significato.
Quella che allora fu una vittoria schiacciante per moralizzare un Paese corrotto e antidemocratico, si è diluita sino al punto da rappresentare il vero ostacolo al futuro dello Stato.
Come si concilia il potere assoluto con un popolo stanco della repressione è proprio la sfida che oggi attraversa l’intero Medio Oriente, passato già per una Primavera Araba cui è seguito l’inverno della guerra civile. Un avvicendarsi di stagioni dove sinora abbiamo assistito alla sparizione dei confini anzitutto tra la sfera dello Stato e della società.
Non è un caso che l’altro grande Paese assolutista della regione, ossia l’Arabia Saudita (governato però da una monarchia terrena e non da una casta di religiosi), abbia scelto come guida un giovane monarca capace di aprirlo alle riforme ed evitare a sua volta d’implodere di fronte al malcontento crescente. E non è un caso che un altro Paese che tenta di combinare potere assoluto e religione come la Turchia, ha evitato per poco di collassare per un colpo di stato ordito da quanti non digeriscono la visione totalitaria del presidente Erdogan.
L’Iran nemico di se stesso
In conclusione, anche se possiede tutti gli anticorpi per far fronte a questa emergenza e silenziare le montanti proteste di piazza, l'Iran resta pericolosamente esposto alle proteste interne e alle ingerenze internazionali, proprio per la sempre più difficile armonizzazione delle sue istituzioni teocratiche e l’esercizio del potere assoluto in nome del popolo.
Teheran ha pressoché vinto la guerra che ha combattuto al fianco di Siria e Russia, ma proprio per questo rischioso slancio in avanti adesso rischia di perdere il consenso e la stabilità interne, indispensabili a mantenere vivo un potere costruito secondo il mito della rivoluzione islamica khomeiniana.