Così la Cina "rieduca" i musulmani uiguri
Pechino ammette l’esistenza del campo di Xinjiang, dove è rinchiuso almeno un milione di musulmani, e approva una legge che legalizza i “centri di rieducazione”
Prima lo ha negato, poi ha ammesso la sua esistenza, infine lo difende. Pechino cambia rotta: il campo di Xinjiang, dove sono detenuti migliaia di musulmani di etnia uigura,esiste ed è necessario per la sicurezza di quella regione del Paese, come spiegato dalle autorità cinesi, che appoggiano il “giro di vite” messo in atto. La Cina non arretra, dunque, anzi ribatte difendendo la legalizzazione dei “campi di rieducazione”e arrivando a sostenere che i detenuti sarebbero persino felici di sottoporsi ai programma di reclusione seguiti.
Cos’è il campo di Xinjiang
Il centro di Xinjiang è stato aperto a marzo del 2017 e vi sono stati trasferiti forzatamente migliaia di musulmani (si parla di almeno un milione) per lo più di etnia uigura. All’interno i prigionieri seguono il cosiddetto “Regolamento sulla de-radicalizzazione”, un enorme esperimento di “rieducazione” forzata di massa il cui scopo sarebbe proprio quello di estirpare l’estremismo islamico. In realtà, secondo gli osservatori internazionali, vi sarebbe applicato un piano per cancellare l’identità e la cultura musulmana.
All’interno del campo sarebbero organizzate vere e proprie sessioni di brain washing, un lavaggio del cervello con tanto di studio obbligato dei principi del Partito Comunista.
A ciò si aggiunge la cancellazione di simboli esteriori di appartenenza alla fede musulmana, dal velo per le donne, alle barbe lunghe per gli uomini. La reclusione non avviene per aver commesso crimini specifici, né dopo una condanna formale per qualche reato particolare: all’interno non esiste alcuna forma di assistenza legale e la permanenza può avere una durata variabile, anche di diversi mesi. Sono le autorità preposte a valutare e decidere se un uomo (ma anche una donna, un anziano o un giovane) si sia “riabilitato”.
La Cina e la guerra al terrorismo interno
La nascita del campo di Xinjiang è stata motivata dall’esigenza di contrastare il crescente estremismo interno, soprattutto da parte della minoranza musulmana degli Uiguri, concentrati nell’omonima provincia occidentale della Cina. Secondo Shohrat Zakir, un alto funzionario del governatorato locale di Xinjiang, Pechino sta combattendo “terrorismo ed estremismo” alla propria maniera, in accordo con le risoluzioni Onu: “Oggi lo Xinjiang non solo è meraviglioso, ma anche sicuro e stabile. Non ha importanza dove si trovi o in che momento del giorno, la gente non ha più paura di uscire, di fare compere, cenare fuori casa o viaggiare” ha spiegato all’agenzia governativa Xinhua.
“C’è ancora molto da fare per sradicare la crescita del terrorismo e dell’estremismo religioso che ha attecchito nel sud dello Xinjiang” ha aggiunto il funzionario.
La denuncia di Amnesty
Ma sono diverse le denunce nei confronti del trattamento subito da coloro che si trovano in questi campi di rieducazione. Secondo Amnesty International, nell’ultimo anno in Cina sono aumentate le campagne di internamento di massa, alle quali si uniscono programmi di indottrinamento politico e culturale, oltre a reclusioni illegali. Nel mirino ci sono soprattutto gli Uiguri, ma non mancano kazachi e altri abitanti nella zona dello Xinjiang a maggioranza musulmana, dei quali vengono messi sotto controllo i telefoni e di cui si monitorano attività e spostamenti. Al primo sospetto scatta l’arresto, a cui seguono spesso trattamenti lesivi della dignità e dei diritti umani.
Non sono rari i casi di suicidio tra coloro che riescono a riottenere la libertà. Chi invece sfugge alla detenzione, evita di mantenere contatti non solo con i familiari e conoscenti che si trovano nel campo, ma anche con coloro che vivono nei paesi d’origine, come il Kazakistan.
Di recente anche l’ex ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, aveva denunciato la “persecuzione di minoranze religiose ed etniche”, paragonando senza mezzi termini la situazione alla Fattoria degli animali di George Orwell e spiegando che questo tipo di strategia, invece che combattere il radicalismo, finisce con l’aumentarlo. Ma la risposta del governo cinese è stata la legalizzazione dei campi come quelli di Xinjiang.
La legalizzazione
La vera svolta si è avuta il 10 ottobre, con quella che la CNN definisce una “silenziosa legalizzazione” del campo di Xinjiang e di tutti i “centri di formazione professionale educativa”, che secondo la legge avrebbero la finalità di mettere sviluppare “un’educazione ideologica anti estremista”.
La spiegazione, però, arriva soltanto due mesi dopo che il portavoce del governo cinese aveva negato categoricamente l’esistenza di campi durante un’audizione sui diritti umani alle Nazioni Unite. Ora Shohrat Zakir non smentisce la presenza né l’attività all’interno del centro di Xinjiang, ma spiega che gli ex detenuti sono stati “trasformati in meglio” grazie al tempo trascorso all’interno.
Usando il termine trainees, “tirocinanti”, Zakir ha sostenuto che molti di loro avrebbero ammesso di essere stati in passato “affetti da estremismo” e di non essersi mai potuti dedicare in precedenza ad arte o sport. “Ora hanno realizzato che la vita può essere anche a colori” ha aggiunto il funzionario.
Nonostante l’ammissione dell’esistenza dei campi di rieducazione, le autorità cinesi non hanno però voluto ufficializzare il numero di persone che vi si trova all’interno, limitandosi a dire che sono molte meno di un milione.
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