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Come difendersi dai terroristi Isis che tornano in Europa da Siria e Iraq

Foreign fighters fra noi. Polizie e intelligence devono agire nei limiti dello stato di diritto e nella consapevolezza che il rischio zero è impossibile

Il ritorno dei foreign fighter in Europa, i terroristi islamici andati a combattere per l'Isis in Siria e Iraq, è un dato di fatto.

QUANTI SONO

Dei 5.718 terroristi accertati con passaporto europeo, oltre la metà sarebbe morta, almeno il 30% ha già fatto rientro in Europa – il 50 percento nel Regno Unito, in Danimarca e in Svezia – mentre, dei 110 italiani, 13 sono rientrati e altri 57 sarebbero ancora in Siria. Il resto cercherà di lasciare il Medio oriente per tornare nell'Unione Europea o per trasferirsi altrove; tra questi anche donne (sei le italiane), molte adolescenti, e bambini nati, o cresciuti, all'interno dei confini dello “Stato islamico” nell'ideologia della violenza religiosa.

COLPIRE IN NOME DELL'ISIS

Alcuni di questi reduci sono già entrati in azione, con i propri “compagni d'armi” o con nuove reclute. È chiaro che chiunque intenda continuare a combattere, anche in Europa, troverà un modo per agire e colpire in nome dell'Isis, anche se lo “Stato islamico” come lo abbiamo conosciuto è ormai condannato a scomparire come realtà politica e territoriale. Ma non come ideologia.

Un altro dato di fatto, correlato al ritorno dei veterani del jihad, è che il numero di attacchi ispirati o diretti dall'Isis continua a crescere, ovunque.

COME REAGISCONO LE INTELLIGENCE IN EUROPA

Dunque non è solamente una questione di come affrontare il problema della sicurezza quando tali soggetti varcheranno la frontiera dei paesi europei quanto, piuttosto, come già oggi stiano operando i servizi intelligence, la sicurezza e le magistrature nazionali.

COLLABORAZIONI

Il problema è più grave di quanto non lascino trasparire i governi europei: nella sostanza gli Stati non hanno ancora trovato una soluzione condivisa, sebbene una delle prime misure adottate per contrastare l'afflusso di jihadisti in Siria e Iraq e per il loro monitoraggio, sia stata la condivisione delle informazioni tra i paesi fornitori di aspiranti jihadisti e la Turchia. Una collaborazione che ha portato alla realizzazione di un database di 53.781 jihadisti provenienti da 146 paesi. Un risultato certamente importante.

SCHEDATI

Inoltre, la caduta delle città irachene e siriane sotto il controllo dell'Isis – Mosul a luglio, Tal Afar ad agosto e Raqqa a ottobre – ha consentito agli investigatori di accedere ai centri amministrativi dello “Stato islamico”; grazie ai documenti analizzati, l'InterPol è riuscita a identificare 19.000 soggetti affiliati all'Isis e a sgominare cellule jihadiste nei paesi di origine e in paesi terzi (solo nel 2016 in Europa sono stati arrestati per terrorismo 1002 individui). Le ragioni che hanno spinto alla condivisione di informazioni relative a “propri cittadini” variano da caso a caso, ma il numero di soggetti schedati pone in evidenza come la questione sia molto sentita.

INTERCETTAZIONI SUI SOCIAL NETWORK

Un ulteriore e fondamentale strumento è quello delle intercettazioni telefoniche e via Web, in particolare attraverso i social network.

Tutte attività che hanno visto la condivisione, benché non sistematizzata, di informazioni tra gli organi investigativi dei paesi europei. Casi eclatanti di terroristi, o presunti tali, che in Italia hanno ottenuto l'attenzione della magistratura, sono quelli dei giovani radicalizzati di prima generazione, figli di immigrati, cresciuti in Italia ma con cittadinanza dei paesi di origine: tra i 110 jihadisti “italiani” abbiamo:

  • Mohammad Jarmoune, nato nel 1991 in Marocco, giunto nel nostro paese da bambino, radicalizzatosi in Valcamonica durante l'adolescenza e intenzionato a organizzare un attacco a Milano;
  • Anas el Abboubi, aspirante rapper del bresciano, anche lui nato in Marocco nel 1992, partito per la Siria;
  • Meriam Rehaily, la “Lady Jihad” padovana classe 1996, ancora una volta di origine marocchina e anche lei partita per la Siria.

POTENZIALI TERRORISTI

Casi, quelli citati, che rappresentano una minima parte dell'immensa massa di radicalizzati, jihadisti e foreign fighter in Europa. Una massa talmente imponente, parliamo di decine di migliaia di potenziali terroristi, da mettere in crisi gli strumenti di sicurezza dei paesi europei che non sono materialmente in grado di gestire il monitoraggio di una minaccia così estesa, capillarmente distribuita e virtualmente collegata alla rete mondiale del terrorismo islamico.

STRUMENTI DI CONTRASTO INSUFFICIENTI

Dunque, la realtà è che i paesi europei sono ben consapevoli del pericolo, ma gli strumenti di contrasto sono insufficienti, come dimostrato dai 142 attacchi, comprendenti sia quelli falliti e sia quelli che hanno avuto successo, e le 142 vittime nel solo 2016.

I governi sono sotto pressione per le limitazioni alle libertà individuali e per misure di sicurezza spesso invasive, da un lato, e per l'incapacità fisiologica di ottenere il “rischio zero”, dall'altro. Molti dei foreign fighter reduci dalla guerra in Siria e Iraq, vengono imprigionati al loro rientro, o messi sotto osservazione, altri semplicemente spariscono.

PRIGIONE O DERADICALIZZAZIONE

Due gli approcci prevalenti nei loro confronti in Europa: incarcerazione e de-radicalizzazione.

Nel primo caso, non affrontando la questione in sé ma esclusivamente sanzionando il reo, il risultato è quello di posticipare il problema nel tempo, con il rischio di ulteriore radicalizzazione o proselitismo in carcere.

Il secondo approccio punta invece a riabilitare i soggetti attraverso un'integrazione che, già fallita all'origine, si pretende di far funzionare dopo un'esperienza estrema come quella della lotta jihadista in Siria.

La maggior parte di questi programmi non hanno dato i risultati sperati e sono stati chiusi, ultimo quello in Francia nel 2017.

E allora, a fronte di un problema concreto e alla domanda di maggiore sicurezza da parte dell'opinione pubblica, quali strumenti sono utilizzati dagli organi di sicurezza dei paesi europei? Perché, se si sanno i nomi e si conoscono i contatti dei potenziali terroristi, i governi li lasciano liberi di muoversi e di uccidere senza che vengano seguiti costantemente?

La risposta è semplice: è impossibile poter seguire tutti i potenziali terroristi e, dovendo fare una scelta su chi concentrare gli sforzi operativi e investigativi (data l'ampiezza della minaccia e le risorse limitate disponibili), per forza di cose si sceglie di allentare “la presa” su altri soggetti, tra i quali alcuni che poi portano a compimento azioni violente.

LO STATO DI DIRITTO

In secondo luogo, in uno stato di diritto, è impossibile detenere preventivamente soggetti potenzialmente pericolosi ma che non hanno – ancora? – commesso un attentato, né hanno chiaramente agito per prepararne uno.

Ma l'Italia, almeno in questo, è un passo avanti rispetto agli altri paesi poiché prevede nel suo ordinamento l'espulsione immediata e certa per tutti quei soggetti sospettati di essere una minaccia per la sicurezza nazionale. Questo però vale solo per i cittadini stranieri, non per quelli che hanno cittadinanza italiana.

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Claudio Bertolotti