Congo, 1961: il massacro degli aviatori italiani
Durante la guerra civile nell'ex Congo belga furono trucidati a Kindu 13 militari. Poco prima era morto anche il viceconsole italiano
L'ex Congo Belga era precipitato nel caos della guerra civile dopo la dichiarazione di indipendenza del giugno 1960. La colonia governata fino ad allora dal sovrano belga era dilaniata dalle lotte tribali e dalla volontà di secessione della regione del Katanga, ricca di giacimenti preziosi. Nella guerra civile che vide contrapporsi i sostenitori del presidente congolese Kasa-Vubu e quelli del primo ministro Patrice Lumumba fu coinvolta la politica mondiale che riportò in Congo le tensioni della guerra fredda, con gli Usa a supportare Kasa-Vubu e Mosca schierata con Lumumba. Ad aggravare la situazione il governo separatista katanghese di Moisé Ciombe assoldò per la guerriglia un gruppo di mercenari belgi. Da questa situazione esplosiva nacque la missione internazionale delle Nazioni Unite con il nome di Opération des Nations Unies au Congo (ONUC) nella quale furono incluse anche le forze armate italiane.
Già nel luglio del 1960 l'Aeronautica Militare fu chiamata per la prima missione in territorio dell'ex colonia belga, allo scopo di trarre in salvo un gruppo di connazionali rifugiatisi temporaneamente in Rhodesia e presi successivamente in consegna da paracadutisti belgi per l'appuntamento stabilito nella regione del Katanga. La missione fu affidata a due velivoli Fairchild F-119 del 98° e 2° Gruppo della 46a Aerobrigata che decollarono da Pisa alla volta di Elisabethville quando la prima vittima italiana era già caduta. Anche in questo caso, come nei fatti del 22 febbraio 2021, la vittima era un diplomatico. Si trattava del viceconsole italiano Tito Spoglia caduto nel tentativo di evacuare i suoi connazionali la notte del 10 luglio 1960. La prima difficile missione degli aviatori italiani si concluse in un successo, seppur non privo di rischi anche per le condizioni meteo e delle piste sulle quali si erano trovati ad operare. Il 17 luglio i due aerei ripartirono per l'Italia dopo aver salvato oltre 300 persone di diverse nazionalità, portando nella stiva il feretro di Spoglia. Le missioni di salvataggio proseguiranno per tutto il mese, con il bilancio finale di oltre 400 rimpatri e tonnellate di aiuti in generi di prima necessità.
Ma la situazione del Congo peggiorò proprio durante l'estate, quando il coinvolgimento dell'Urss a fianco di Lumumba e le spinte indipendentiste katanghesi rischiavano di finire fuori controllo. L'Onu decise dunque di aumentare la presenza sul territorio e chiese una partecipazione maggiore e continuativa al Governo italiano, che acconsentì confermando l'impegno della 46a Aerobrigata, che da quel mese si trasferì nel paese africano pronta a fornire appoggio aereo ai Caschi Blu della forza ONUC. Le missioni erano sempre pericolose sia per le condizioni climatiche e geografiche anche per la mancanza di un servizio efficiente di informazione tra le diverse componenti la task force, per cui ogni atterraggio risultava rischioso in quanto era ignoto chi in quel momento lo avesse sotto controllo. La base era l'aeroporto di N'Djili, che operò per tutto il 1960 nel territorio del Congo con i distaccamenti, caricando ogni genere di merci, uomini e mezzi.
Che il 1961 sarebbe stato un anno infausto per la missione degli aviatori italiani si capì sin dall'inizio. Mentre la situazione della guerra civile dopo l'assassinio di Lumumba precipitava sempre più, a precipitare fu anche uno dei C-119 italiani. Dopo un atterraggio in avaria e la successiva riparazione, l'aereo si staccò dalla pista riscontrando il medesimo problema ad uno dei propulsori. Cercando di riguadagnare terra con un elica "a bandiera" il velivolo impattava al suolo causando la morte di tre membri dell'equipaggio.
I mesi successivi rappresentarono una crescita dei rischi per le forze Onu, in quanto l'organizzazione (ormai in balia delle divisioni sulla questione congolese dei vari stati membri) che gestiva anche le spese militari della missione decise per un colpo di mano contro i separatisti katanghesi di Ciombe e i loro mercenari belgi con un azione di forza militare, che avvenne in seguito nella capitale Elizabethville dove la guerriglia provocò la crisi dei profughi di etnia Baluba, terrorizzati dalla repressione. Verso la fine del 1961 le forze katanghesi avevano stretto in una morsa le postazioni ONUC, che rischiavano l'isolamento e venivano bersagliate dall'artiglieria. In assenza di una copertura caccia, l'urgenza del supporto aereo fu affidata ai Fairchild italiani in grado di agire anche nelle ore notturne.
Aeroporto del distaccamento di Kamina, 11 novembre 1961. La tragedia.
Il Maggiore Amedeo Parmigiani e il Capitano Giorgio Gonelli decollarono con un carico di rifornimenti per i caschi blu Malesi che li attendevano all'aeroporto di Kindu sui due C-119 "India 6049" e "India 6002". Mentre si trovavano riuniti dopo l'atterraggio alla mensa dell'aviosuperficie furono oggetto di un assalto improvviso di ribelli dell'Armata Nazionale Congolese perché scambiati per mercenari belgi di Ciombe, che alcune voci tra i miliziani avevano dato come prossimi all'arrivo, nonostante il C-119 recasse ben evidenti le insegne ONU-Italian Air Force. I circa sessanta componenti del comando disarmarono i malesi ed iniziarono a malmenare gli aviatori italiani. Il responsabile malese della sicurezza non fece nulla per intervenire. Già storditi dalle percosse gli italiani furono caricati su un autocarro e portati nella piazza antistante le prigioni di Kindu al cospetto di una folla inferocita. Alle 17:30 circa furono tutti fucilati e i loro corpi straziati per ricavarne macabri trofei. CI vorranno giorni perché l'intervento delle forze ONUC riuscisse ad avere ragione degli assedianti. Soltanto il 25 novembre fu possibile recuperare i due C-119 e due mesi dopo anche i resti dei poveri aviatori, preservati dall'intervento di un prete cattolico congolese che li seppellì di nascosto evitando che finissero in pasto ai coccodrilli come usanza voleva nei confronti dei coloni bianchi. In italia la tragica fine dei militari italiani fu appresa dai media che diffusero la notizia il 16 novembre, lasciando il Paese sgomento. Le salme furono recuperate grazie al coraggio del cappellano militare della 46a Aerobrigata don Emireno Masetto, che riuscirà non senza pericolo a farsi trasferire a Kindu e a individuare il luogo di sepoltura dei resti dei 13 caduti nel cimitero di Tokolote. Alla presenza di due medici della Croce Rossa austriaca e di soldati Onu Etiopi. Le vittime di Kindu poterono toccare nuovamente il suolo di Pisa a bordo di un C-130 messo a disposizione dall'Usaf l'11 marzo 1962. I responsabili dell'eccidio, individuati successivamente dalla commissione d'inchiesta Onu, non pagarono mai le conseguenze di quelle atrocità, approfittando dei rapidi mutamenti di fronte vissuti dal paese o fuggendo all'estero. Il contingente ONUC continuò a operare in Congo fino al 1964 con il pesante bilancio finale di 235 morti tra i caschi blu. Oggi le salme dei 13 aviatori massacrati sessant'anni fa a Kindu, riposano nel viale che porta all'aeroporto militare di Pisa, intitolato proprio al loro sacrificio.
Le immagini sono tratte dal volume "Eccidio di Kindu- 50 anni fa la tragedia degli aviatori italiani" di Paolo Farina. Ed. Rivista Aeronautica (courtesy Aeronautica Militare)