Senza Cina ed India Cop27 è l'ennesimo fiasco del mondo green
La conferenza sul clima si sta rivelando l'ennesimo fiasco del mondo green incapace di far sedere ad un tavolo i due più grandi inquinatori del pianeta
Tutti lo sanno. Non c’è né ci sarà alcuna svolta alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, che fino al 18 novembre terrà impegnati 40 mila delegati di quasi 200 nazioni in una Conferenza sul clima che dovrebbe impegnare i leader del mondo su politiche concrete volte a frenare l’aumento della temperatura terrestre di 2,5 gradi entro il secolo. Tutto sarà rimandato ancora una volta.
Dopo Parigi e Glasgow, che hanno sostanzialmente stabilito i parametri scientifici e hanno rimandato alla faraonica operazione d’immagine di Al Sisi la decisione su un fondo comune per l’emergenza, ecco che il meccanismo virtuoso di impegni concreti e universali si è inceppato alle prime difficoltà, proprio sui contributi concreti (cioè quelli finanziari). Anche perché - è presto detto - senza Cina, India e Russia, ovvero i grandi accusati della produzione incontrollata di CO2 che tanto danneggia il pianeta, non si può che parlare di flop.
Come ricorda l’ex ministro Roberto Cingolani, oggi consigliere per la transizione ecologica del governo Meloni, «l’Italia produce meno dell’1% del gas serra planetario, l’Europa meno del 9%; per cui basta che un Paese come l’India o la Cina non si allinei ed ecco che - poiché loro di gas serra ne producono tra il 20 e il 25% - qualunque sforzo facciamo la risposta sarà vanificata». Lo scrive nero su bianco nel saggio sulla green economy a cura di Daniele Moretti Il capitale Naturale, in uscita il 9 dicembre per i tipi di Paesi Edizioni.
Aggiunge nello stesso saggio Johan Rockström, scienziato di fama internazionale e direttore del Potsdam Institute of Climate Impact Research: «Abbiamo già raggiunto un riscaldamento di 1,1 gradi Celsius, che è già la temperatura più calda sulla Terra da quando abbiamo lasciato l’ultima era glaciale 12.000 anni fa. Nella migliore delle ipotesi saremo in grado di stabilizzarci a 1,5 gradi Celsius. E già a questo punto sentiamo il dolore che vi si accompagna: abbiamo una frequenza più alta di uragani, siccità, foreste, incendi, ondate di caldo, inondazioni più gravi, e vediamo che ciò si verifica in un modo più rapido di quanto avessimo previsto in tutto il mondo. Siamo tutti colpiti già adesso. Il che significa che ogni decimo di grado è importante perché ogni minimo aumento di riscaldamento porterà a impatti più gravi e difficoltà maggiori per farvi fronte e adattarsi».
Eppure, anche se tra i temi al centro dell’agenda di Sharm el-Sheikh si percepisce quest’urgenza, i buoni rapporti tra Il Cairo e Pechino non hanno permesso a, presidente Al Sisi di persuadere il partito comunista cinese a presenziare in una qualche forma. Né di convincere New Dehli. Dunque, a Sharm non resta che ragionare con il resto del mondo (responsabile per il restante 60 o 70% dell’inquinamento atmosferico) su come ripartire in favore delle nazioni più vulnerabili il finanziamento per limitare i danni già causati dai cambiamenti climatici. Ma anche qui, gli egoismi superano la solidarietà. E resta forte l’imbarazzo per i grandi assenti.
In questo modo, il dibattito su come ripartire la maggiore responsabilità finanziaria del cambiamento climatico (e come debba perciò contribuire in proporzione) appare inane e somiglia più a un esercizio di stile. I Paesi più poveri presenti alla Cop - che hanno contribuito meno al cambiamento climatico ma già subiscono il peso degli impatti più devastanti - pretendono però di lasciare Sharm con un’intesa vincolante su precisi impegni finanziari da parte dei Paesi ricchi, molti dei quali hanno fatto crescere le loro economie proprio grazie ai combustibili fossili.
Ma un impegno formale da parte della Conferenza sul cosiddetto «Loss and Damage Finance Facility» appare una chimera. Del resto, sinora la proposta è sempre stata respinta, finanche alla Cop26, quando solo 29 paesi su 194 avevano presentato proposte e piani nazionali rigorosi che andavano nella direzione auspicata.
Rimarca lo stesso Daniele Moretti, oggi vicedirettore di SkyTg24 e co-autore del documentario Impact dedicato alla crisi climatica: «Deve essere chiaro che il punto non è ottenere nuove promesse, ma solo la realizzazione delle promesse già fatte più di dieci anni fa, quando i Paesi ricchi e industrializzati del mondo, inclusi Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito e Giappone, si sono impegnati a donare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 (e fino al 2025) alle nazioni povere per progetti di adattamento e mitigazione del clima. Un obiettivo finora mai raggiunto».
Ciò nonostante, appare già evidente come pochi Paesi saranno della partita. Sinora, solo la Danimarca e pochi altri virtuosi hanno deciso di stanziare un fondo nazionale per «danni e perdite» nei confronti dei Paesi vulnerabili. Al Summit G20 presieduto dall’Italia (ottobre 2021), l’ex premier Mario Draghi aveva annunciato l’impegno del nostro Paese a mobilitare 1,4 miliardi di dollari l’anno per cinque anni per il Clima. A Sharm, dove l’Italia è presente con un proprio padiglione, verrà presentato alla presenza di Giorgia Meloni il Fondo Italiano per il Clima. Vedremo se confermerà questo impegno. Per il resto, l’Europa intera oggi è più impegnata a fornire armi all’Ucraina e a diversificare le proprie fonti energetiche che a destinare fondi per il clima, se non in maniera indipendente e a titolo personale. Anche perché il dito è puntato contro Pechino.
«La Cina è il più grande investitore in Africa ma rifiuta di fare la propria parte e semmai investirà per altri scopi quel denaro» rumoreggiano i delegati dell’Ue. Ciò che fa Pechino nel continente africano, in effetti, presta il fianco a numerose critiche ed evidenzia anche dei paradossi. Uno su tutti: il sistema agroalimentare, co-responsabile dell’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera.
«La Cina, Paese tradizionalmente vegetariano, a un certo punto ha avuto un picco nel consumo di carne ormai quasi dieci volte superiore a quello che aveva nel periodo prima della guerra, e oggi registra un cambiamento radicale da una dieta vegetariana a una carnivora. Alcuni dei più grandi investimenti che la Cina opera in Africa sono finalizzati alla filiera della soia – non a caso, cresciuta di ben 21 volte dagli anni Cinquanta – che però non è destinata agli esseri umani, bensì agli allevamenti intensivi come cibo per gli animali. Se anche solo riducessimo il consumo di carne di un terzo, potremmo sfamare l’intera popolazione mondiale e continueremmo a vivere bene lo stesso» sottolinea il premio Nobel per la Pace Riccardo Valentini, nel saggio di Moretti.
Precisa Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia: «Oggi le produzioni agricole per il 70% sono destinate al consumo di animali, che vengono allevati industrialmente e che sono un problema sia per il clima - perché le emissioni di metano del settore sono in gran parte legate alla zootecnia industriale - sia per l’inquinamento a livello locale. Abbiamo scoperto, ad esempio, che proprio gli allevamenti intensivi nella pianura padana sono una delle principali fonti di polveri sottili. L’ammoniaca emessa dagli allevamenti intensivi fa parte di quei gas che, poi, si trasformano in polveri sottili come gli ossidi di azoto o gli ossidi di zolfo».
Pechino sa bene che il peso del suo miliardo e oltre di cittadini da sostentare nel presente e per il futuro rappresenta la più evidente assicurazione per uno sforamento dei parametri di Parigi. Ma non ha né la forza né la cultura né tantomeno l’intenzione di modificare il proprio modus operandi, principalmente perché schiava del sogno egemonico di Xi Jinping. Il quale, volendo restare nei libri di Storia, punta esclusivamente alla gloria personale e della sua nazione, anche se questo condannerà le generazioni future a dover fare i conti con qualcosa che potrebbe distruggere l’intera Asia.
Quanto alla bozza finale della Cop27, è probabile che ricalchi la posizione ufficiale dei ministri europei delle Finanze: un j’accuse che confermerà soltanto come i maggiori responsabili della crisi climatica non abbiano ancora modificato la propria linea d’azione in termini di ampliamento del perimetro della finanza climatica, e un calendario che rimanderà al 2024 il termine ultimo per tutti per aderire al fondo internazionale che sarà utilizzato per coprire i danni provocati dai disastri naturali. Insomma, la Cop 27 di Sharm el-Sheikh non sarà certo ricordata come una pietra miliare nella road map per un clima sostenibile.
Nel frattempo, nuove guerre incombono e le energie sostenibili sono appannaggio del solo Occidente. In questo modo, il 2024 diventa la red line per il pianeta. Sempre che Cina, India e Russia si convincano che siamo tutti coinvolti e che la finestra di tempo per invertire la rotta si va restringendo in maniera preoccupante.
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