Cosa resta del Pd: solo il potere
Ciò che resta del partito dopo la scissione Non può dirsi socialista, nè liberale. È pura perpetuazione del potere in se stesso
A prima vista, le vicende interne del PD mettono di buonumore. Fanno pensare a certe vecchie comiche, a certi vaudeville di Georges Feydeau, in cui tutti entrano ed escono in un vorticoso gioco degli equivoci.
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I vecchi titolari della Ditta, D’Alema e Bersani, che - messi in disparte dal giovane rampante – sono costretti a lasciare la casa che hanno costruito, aggiungono un tocco melò a tutta la faccenda, un po’ alla Eva contro Eva, senza la classe di Bette Davis.
I dolori del giovane Cuperlo, eterna promessa non mantenuta, dai tempi della FGCI, alla ricerca di improbabili mediazioni con se stesso.
Il truce Emiliano, che – come un personaggio di Nanni Moretti – si pone la cruciale domanda “mi si nota di più se mi scindo o se non mi scindo”?
L’amletico Orlando ha posto fine a tre anni di silenzio per scoprire d’un tratto di non potersi “rassegnare al fatto che la politica debba diventare solo prepotenza”, dove per prepotente si intende naturalmente Renzi, fino ad oggi sostenuto senza traccia di distinguo.
Va detto, per semplificare le cose, che anche la corrente di Orlando (definita “i giovani turchi” con grande rabbia della comunità armena in Italia che non ha mai dimenticato il genocidio subito negli anni ’10) si è scissa a sua volta: il co-fondatore Matteo Orfini non sostiene Orlando ma – forse per ragioni di omonimia – l’altro Matteo, che è ovviamente Renzi.
Il quale Renzi, per non sbagliare, ha lasciato i naufraghi intenti a cannibalizzarsi sulla Zattera del PD, come i protagonisti del celebre dipinto di Géricault, e se ne è volato in America, a rifondare la sinistra a Wall Street e alla Silicon Valley. Tanto per dimostrare di non essere arrogante e di essere vicino ai problemi dei giovani disoccupati e dei pensionati che non arrivano a fine mese.
Tutto ciò potrebbe sembrare divertente, almeno per gli amanti del genere. Ma di fatto non lo è, perché lo stato di salute di un grande partito, in un sistema democratico, è un problema che riguarda tutti, anche coloro che quel partito non lo voterebbero mai e che si augurano in ogni modo di batterlo alle elezioni.
La scissione del PD, farsesca nei modi, è però tragica nella sostanza. Cosa rimane della sinistra italiana?
Una frazione che un tempo avremmo definito massimalista, affidata a vecchie glorie alle quali molti elettori di sinistra imputano il fallimento della sinistra stessa (i D’Alema e i Bersani sono i leader con i quali “non vinceremo mai” come gridava il solito Moretti), che rincorre formule politiche del passato (l’Ulivo, l’Unione) e si affida a volti nuovi che la Speranza ce l’hanno solo nel cognome. Una vocazione minoritaria, quella della nuova formazione a sinistra del PD, che consente loro di sopravvivere, non di svolgere un ruolo.
E il PD? Cosa rimane del PD, a parte i numeri che per il momento sono saldamente favorevoli a Renzi? Se il Partito Democratico dieci anni fa era una fusione fredda di nomenclature, poteva tuttavia ambire a definirsi il punto d’arrivo di un progetto che parte da lontano: l’incontro fra la sinistra cattolica e quella comunista, che dall’epoca del compromesso storico rappresenta una parte significativa del pensiero politico italiano.
Ma oggi cos’è il PD, dopo la scissione? Non può più dirsi socialista, non è certo diventato liberale, cattolico ha smesso di esserlo da un pezzo. È un puro conglomerato di potere, senza un’anima, senza una cultura politica alle spalle, senza altro scopo che la perpetuazione del potere in se stesso. Una sorta di Partito Rivoluzionario Istituzionale, il divertente ossimoro che governa ininterrottamente il Messico da molti decenni, con uno dei più alti tassi di corruzione, inefficienza e degrado al mondo. O se preferite un esempio più domestico, una Democrazia Cristiana senza ispirazione religiosa, senza l’ancoraggio alla Chiesa, che garantiva a quel partito un significato, una ragion d’essere al di là delle contingenze quotidiane del potere.
Eppure il PD è oggi nonostante tutto il maggiore partito italiano, quello che dovrebbe rappresentare, nel bipolarismo ancora vagheggiato da alcuni, il polo progressista.
Se consideriamo che a dispetto dei numeri neppure il centro-destra, grazie all’infatuazione sovranista di Salvini e Meloni, gode ottima salute, chi potrà governare questo sfortunato paese dopo le elezioni?
Non rimane che sperare nell’ennesimo miracolo del Cavaliere, ma è difficile immaginare che possa ripetersi fino a vincere da solo.
Oppure toccherà davvero ai grillini, nonostante tutto quello che stanno facendo per evitarlo? Nonostante di eroici sforzi di Virginia Raggi per far capire agli italiani cosa succede mandandoli a governare? Una catastrofe non solo per l’Italia, ma anche per Beppe Grillo, che ne è d’altronde ben consapevole.
Nel frattempo, godiamoci pure lo spettacolo, anche perché non c’è altro che possiamo fare.