Cosa significa il riarmo nucleare per Donald Trump
Come vanno lette le reazioni della Duma sul rafforzamento dell'armamento militare e nucleare? È l'inizio di una nuova guerra fredda?
Alcuni commentatori internazionali hanno intravisto in questo scambio di opinioni la fine della luna di miele tra Mosca e Washington. Niente di tutto ciò. La realtà è un'altra, e molto più banale. Vi sono due elementi imprescindibili per spiegare le dichiarazioni di Trump. Il primo riguarda la politica economica nazionale, il secondo la politica estera americana.
La politica economica nucleare
Non si può non leggere dietro le parole volutamente roboanti del presidente americano, un fine preciso: la nuova Amministrazione intende
tutelare l'industria pesante per mantenere - o, meglio, aumentare - i posti di lavoro in un settore che ha notevolissimi margini di sviluppo come appunto quello degli armamenti. Del resto, anche avere più soldati e più armi, significa più produzione, commercio, manutenzione. E, dunque, lavoro.
È questo che intende il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, quando dichiara "gli Stati Uniti non vogliono cedere a nessuno la loro supremazia sul nucleare" o quando Trump afferma di voler creare " il più grande esercito della storia americana". Non si vogliono far risuonare i tamburi di guerra, piuttosto si punta a far risuonare la campana di Wall Street. E la Russia serve solo come proiezione, un'ombra che nasconde ambizioni che poco hanno a che vedere con l'idea di uno scontro muscolare.
Già all'indomani della vittoria elettorale, infatti, gli analisti finanziari di Morning Star, società di investimenti finanziari con sede a Chicago (la città di Obama), leggevano così la svolta politica americana: "Le promesse elettorali di Donald Trump rendono felice l'industria pesante […] Il piano del prossimo inquilino della Casa Bianca è quello di alzare in maniera significativa gli investimenti nel settore della difesa. Dai suoi interventi si è capita l'intenzione di aumentare le truppe in forza all'Esercito e alla Marina, di acquistare nuove navi e aerei militari, nonché di rafforzare la difesa missilistica. Impegni che dovrebbero far salire la spesa militare a quota 650 miliardi di dollari nel 2019".
Questo andrà a tutto
beneficio delle molte aziende di settore, che si caratterizzano per una leva operativa molto elevata e che, vedendo crescere i propri ricavi, di conseguenza aumenteranno gli investimenti e le assunzioni di personale.
Si potrebbe aggiungere che
il nucleare è anche una fonte energetica indispensabile per gli Stati Uniti (il 20% della produzione totale di energia prodotta nel Paese), o che la torta economica del paese è troppo sbilanciata sul settore terziario (che rappresenta oltre il 70% della produzione economica nazionale e il 76,5% degli impieghi totali), ma la sostanza non cambia.
È questa, in estrema sintesi, la scommessa del nuovo presidente: il
do ut des trumpiano con l'industria pesante, un patto che punta ad arricchire le grandi compagnie in cambio di almeno 10 milioni di posti di lavoro nei primi quattro anni di presidenza, per un totale di 25 milioni nel prossimi dieci.
Non c'è molto altro nelle intenzioni di Trump. Nessuna visione geopolitica. Nessun intento bellicoso. Nessuna “nuova guerra fredda", se non quella che punta al
rilancio economico americano, a spese di tutti gli altri Paesi. A cominciare proprio da Cina e Russia, a loro volta protagonisti-antagonisti nei settori dell'industria pesante, dall'acciaio alle armi, dalle infrastrutture allo stesso nucleare.
La politica estera nucleare
Ma, per compiere il miracolo, Donald Trump ha bisogno di
promuovere una politica estera forte e aggressiva. Ed ecco che la sua strategia passa per simili dichiarazioni altisonanti, che tuttavia servono solo da volano per la vera sfida, quella interna.
La volontà del nuovo presidente è tesa unicamente a
rinforzare la produzione nei settori più remunerativi del secondario, in particolare l'industria pesante che, rispetto ad esempio a quella tecnologica, produce molti più operai e impiegati della classe media. L'equazione è semplice: più salariati, più futuri elettori. Dov'è in tutto questo la sfida con la Russia? Inesistente.
A dimostrazione di ciò
c'è la guerra vera, quella che si combatte ad esempio in Siria, dove tra Washington e Mosca è in atto il contrario di una guerra fredda: i primi segni di una nuova e fattiva collaborazione tra americani e russi si sono avuti già ad Aleppo, e ora soprattutto ad Al Bab, nel nord della Siria, dove per la prima volta sono state sperimentate forme di coordinamento operativo sul terreno tra americani e russi, aprendo i cosiddetti de-confliction channels.
Il fatto, ufficialmente inedito in questa guerra, è un segnale importante che conferma il nuovo clima nelle relazioni tra la Casa Bianca e il Cremlino, dopo la vittoria elettorale di Donald Trump, e dimostra una volta di più che
in politica la retorica è importante tanto quanto l'iniziativa.