"Così ho curato i naufraghi di Mare Nostrum"
Claudio Poti, primario ospedaliero, racconta i suoi giorni nel Mediterraneo a bordo della San Giusto
Da medico, primario in due ospedali, ha speso le sue ferie imbarcandosi come volontario a bordo della nave San Giusto, in missione nel Mediterraneo per l’operazione Mare Nostrum. Ne è sceso portandosi dietro ricordi indelebili: il pianto della madre che si è vista strappare il figlio da un’ondata, lo sguardo smarrito e triste dei bambini all’arrivo sulla nave e i loro sorrisi poi, lo sfinimento dei migranti dopo giorni di viaggio sui barconi, la loro incapacità perfino di sollevare una bottiglietta d’acqua per dissetarsi. E si è formato una convinzione: che l’operazione Mare Nostrum rappresenta «una gigantesca trincea sanitaria a difesa dei cittadini italiani» e le navi della Marina militare che pattugliano il mare tra Italia e Libia somigliano a una specie di «Ellis Island galleggianti, molto più umane e cordiali» dell’isola fortezza che rappresentò l’approdo negli Usa per generazioni di immigrati.
Per Claudio Puoti, 60 anni portati con allegria, una moglie e una figlia di vent’anni, primario di medicina epatologica nell’ospedale di Marino e di medicina interna in quello di Frascati, 20 chilometri da Roma, l’avventura a bordo della nave San Giusto è cominciata con una domanda: «Da mesi seguivo sui giornali le storie degli sbarchi e dei naufragi. Ero angosciato per i bambini morti, i migranti soffocati nella stiva. Qualcosa bisogna fare, mi dicevo, ma che cosa? Poi ho pensato: sono un medico, può darsi che abbiano bisogno di me. Sul sito della Marina militare ho cliccato: operazione Mare Nostrum e lì ho trovato un link con la Fondazione Rava, una onlus che non conoscevo». Filiale italiana di un’organizzazione specializzata nell’assistenza agli orfani e ai bambini abbandonati, la Nph (Nuestros pequeños hermanos, nostri piccoli fratelli), la Fondazione Francesca Rava collabora con la Marina militare dal tempo del terremoto di Haiti e per Mare Nostrum ha già inviato come volontari a bordo delle navi 55 persone tra medici, infermieri, ostetriche. Racconta Puoti: «Sul sito della Fondazione ho trovato l’opzione “contattaci”. Ho scritto una email: sono un epatologo, virologo, somiglio a Ernest Hemingway… Mi hanno chiesto un curriculum e un certificato medico. In un baleno mi sono ritrovato abile e arruolato. Ho parlato con moglie e figlia, mi sono messo in ferie e sono partito».
Il 12 agosto questo dottore, che lavora da 34 anni nello stesso ospedale, ha scelto come suoneria per il telefonino le note di un concerto di Brahms, adora il Thomas Mann de I Buddenbrook e non era mai salito su una nave, si è imbarcato sulla San Giusto: «Non sapevo neppure se avrei sofferto il mal di mare». Non avrebbe neppure avuto il tempo di star male perché, dal 12 al 26 agosto, in due missioni nel Canale di Sicilia, insieme con uno staff di medici militari, gli è toccato assistere 2.076 migranti, come certifica l’attestato rilasciato dal comandante della nave che Puoti ha appeso alla parete della sua stanzetta di primario.
Infilato in una tuta bianca, completa di cappuccio, con guanti, calzari e una mascherina a bulbo, solo gli occhi scoperti, il medico volontario ha visto arrivare sulla nave uomini, donne e una marea di bambini, dai 15 giorni in su. «Subito, a tutti, controllavamo le mani, per vedere se non avessero la scabbia, e misuravamo la temperatura con un termometro agli infrarossi». Malati e casi sospetti venivano separati dal resto dei migranti. «Per ognuno si redige una scheda sanitaria, indicando la provenienza, l’età, la patologia, la terapia da seguire.
La San Giusto è attrezzata come un ospedale: ha un piccolo laboratorio di analisi, una minisala radiologica in collegamento con l’ospedale militare del Celio, un elettrocardiografo e un eccellente materiale farmacologico. In due settimane non mi è mai mancato un farmaco». I casi più gravi? «Un bambino siriano malato di leucemia. I suoi genitori avevano perso le medicine nel viaggio. È stato imbarcato d’urgenza su un elicottero, con padre e madre, e portato in terraferma. Un anziano con la cirrosi epatica. Un ragazzo con il diabete». Né tubercolosi né Ebola? «Assolutamente no. Ed è giusto dire che Mare Nostrum è una barriera sanitaria, una garanzia per tutti. Perché i migranti arrivavano prima e arriveranno anche dopo, ma a bordo delle navi viene garantito un controllo serio: i malati, al momento dello sbarco, vengono isolati dagli altri. Il pericolo, se mai, c’è quando i barconi approdano a riva e i migranti si disperdono».
Tornato a terra, Puoti continua a tenersi in contatto con l’equipaggio. «Mi sono innamorato della Marina. Questi militari sono eroi. Non perdono mai l’allegria. Né la tenerezza: ho visto i fucilieri della Brigata San Marco tenere in braccio i bambini come se fossero di porcellana. Appena riesco a raggranellare un po’ di ferie, torno a bordo».