Exit strategy: suicidio assistito in Svizzera
Emilio Coveri: "E' proprio perché amo la vita che la sofferenza deve avere un limite"
Li manda a morire ammazzati o li aiuta a liberarsi dopo una vita di sofferenza? Un «angelo della buona morte», che ha dedicato la sua vita prima ai camion Iveco e poi alla sofferenza, o meglio alla sua fine. Perché per lui la morte è paradossalmente una scelta di vita. Emilio Coveri, 62 anni, di Torino, è il presidente dell’associazione Exit , che si batte per il testamento biologico e una normativa che preveda l’eutanasia. Da lui sono passati il magistrato calabrese Pietro D’Amico e l’assessore di Jesi Daniela Cesarini, che si sono recati in una clinica svizzera dove praticano il suicidio assistito. Ex manager Fiat, Coveri ha passato la prima lunga parte della sua vita in giro per il mondo organizzando i saloni per conto dei veicoli industriali della casa torinese.
Poi che è successo?
Ho perso mio padre per un cancro fra atroci sofferenze il 2 giugno 1988. Due anni dopo si ammalò mio zio. Pochi mesi prima della sua morte mi invitò per vedere Juve-Barcellona. Lo aiutai ad alzarsi dal letto e, mentre lo sorreggevo, mi disse: «Emilio, aprimi la finestra che mi butto giù, non ce la faccio più».
Lei aprì la finestra?
No, lo rassicurai. Ma il tempo che lo separò dalla morte fu penoso e segnato dal dolore.
Fu lì che decise di occuparsi dell’eutanasia?
No, passarono altri sei anni. Nel 1996 chiamo una mia collega e amica di Zurigo, Barbara Stein. Mi dice: «Ecco, nemmeno gli auguri per il compleanno mi hai fatto. Pensa che ieri l’unica telefonata l’ho avuta da una associazione per l’eutanasia che voleva che mi iscrivessi». Ecco, quella parola, eutanasia, ha cominciato a frullarmi nella testa. Ho rivisto la fine di mio padre e di mio zio. Il giorno dopo ho richiamato Barbara e le ho chiesto il numero di quell'associazione. Ho telefonato e ho deciso che avrei fondato la Exit Italia.
Cosa voleva fare concretamente?
All’inizio pensai solo a un centro studi e documentazione sull’eutanasia. Era un tema difficile, ma poco conosciuto e dibattuto.
E che reazioni ebbe?
Un grande successo. Molte chiamate e soprattutto, tanta sofferenza.
Ricorda la prima telefonata?
Sì, fu quella di Giuseppe Gosio, un ex pilota militare rimasto paralizzato dopo un incidente in fase di atterraggio. Era immobilizzato da 22 anni e non ne poteva più. Mi diceva: «Mi aiutate a morire?».
E lei?
Ho detto a Giuseppe, che poi è morto due anni dopo naturalmente, che non potevamo fare nulla noi della Exit, ma solo informare su quei posti dove è legale la pratica del suicidio assistito.
Quindi lei non organizza i viaggi della morte?
Assolutamente no. Se lo facessi sarei penalmente perseguibile ai sensi degli articoli 579 (agevolazione al suicidio) e 580 (istigazione al suicidio) del Codice penale. Hanno scritto addirittura che io guidavo il pullman carico di aspiranti suicidi verso i Paesi Bassi...
E non è vero?
No. Primo perché sono praticamente cieco ed è difficile per un non vedente guidare un pullman; secondo perché nei Paesi Bassi non si pratica il suicidio assistito ma l’eutanasia e ne possono usufruire solo i cittadini olandesi.
E allora dove va un italiano che vuole morire legalmente?
L’unico paese che accetta cittadini stranieri è la Svizzera, c’è un’associazione a Berna, una a Basilea e una a Zurigo.
Come funziona il suicidio assistito?
La persona interessata manda le sue cartelle cliniche, che vengono vagliate da una équipe di medici svizzeri. Se la malattia è irreversibile, degenerativa, e insomma è sicuro che non c’è nulla da fare, la domanda viene accettata, ti danno quello che in gergo si chiama semaforo verde.
A questo punto che si fa?
La persona fissa una data, si va uno o due giorni prima e si soggiorna in albergo. Qui vieni visitato da un medico che ha il dovere di dissuaderti. Il 40 per cento di quelli che arrivano in albergo il giorno prima della morte programmata ci ripensa e torna indietro.
Non abbastanza motivati?
Non abbastanza, o forse il colloquio col medico fa scattare ancora una speranza di vita. Ti dici: «Dai, proviamoci ancora un po’».
E il 60 per cento?
Quelli vanno avanti, determinati, convinti. Dopo l’ultima notte in albergo, al mattino ti portano nella clinica. Lì, di nuovo, il medico ti chiede se sei proprio sicuro e, se non torni indietro, vai nella stanza, ti metti a letto e aspetti il medico. Ti danno un calmante e un farmaco per assimilare meglio la pozione finale. Poi ti filmano e tu devi dire che è una tua libera scelta, per evitare problemi legali di qualche parente che può intentare una causa. Poi ti danno un bicchiere con il sonnifero e il cloruro di potassio. Lo devi bere da solo, nessuno ti può aiutare. Se non puoi muovere le mani, ti danno una cannuccia. Dopo tre minuti ti addormenti e dopo cinque il cuore si ferma.
E poi?
Il personale della clinica chiama la polizia e il medico legale, tutto viene registrato e si chiude la pratica. Il corpo viene portato al forno crematorio e le ceneri vengono consegnate alla persona indicata dal suicida.
Quali sono i costi?
Circa 8 mila euro: apertura della pratica, il medico che deve valutare, le eventuali traduzioni, i farmaci, la clinica, il trasporto della salma, la cremazione, l’albergo.
Si può accompagnare l’aspirante suicida?
Sì, ma non bisogna dirlo. Supponiamo che io voglia andare a morire e lei mi vuole dare l’ultimo saluto. Lei dirà che è andato in Svizzera per turismo, mentre io andrò per conto mio. Per la legge italiana bisogna essere bugiardi, se no puoi essere accusato in base agli articoli 579 o 580. Una signora di Monza che accompagnò la madre a morire alla Dignitas è stata condannata a un anno e sei mesi, seppure con la condizionale.
Quanti italiani, finora, sono andati a morire in Svizzera?
Almeno una trentina con la Exit. Ma alcuni, come Lucio Magri, hanno preso contatti lì.
Quante telefonate ricevete?
Trenta a settimana.
Quanti iscritti ha la Exit Italia?
A oggi, 1.586. Le iscrizioni aumentano ogni anno del 20 per cento.
Chi vi telefona?
Uomini e donne, in media sui 70 anni. Gente che sta male, malattie come Sla, sclerosi multipla, tumori terminali. Molti vogliono solo informarsi. Perché una cosa importante è sapere che ci potrà essere una possibilità di non soffrire troppo. Dà grande conforto.
Lei pure ha pensato al suicidio?
Sì, quando la mia retinite pigmentosa, una maculopatia degenerativa, ha iniziato a farmi diventare cieco. Sono andato nel 2009 dalla dottoressa Erica Preisig della Life Circle per capire se la mia malattia mi potesse garantire il semaforo verde.
E allora?
Mi disse che, sì, potevo suicidarmi.
E perché non l’ha fatto?
Perché nel colloquio mi disse: «Caro Emilio, ma perché vuoi morire? Tu sei il presidente della Exit, rappresenti una speranza per tanta gente che cerca delle risposte. Se muori, chi farà in Italia quello che fai tu?». Mi sono alzato, ho fumato una sigaretta e ho capito che avrei continuato a vivere. Faccio parte di quel 40 per cento che torna indietro.
Lei dà una speranza di morte. Non si sente macabro?
Allora non ha capito nulla... Io sono per-la- vi-ta. A noi piace divertirci, amare, andare a teatro, leggere, bere, mangiare, stare con gli amici. Ci piace vivere. Ma vivere una vita sana, felice, attiva.
La sofferenza non è ammessa?
La sofferenza è ammessa. Io so cosa è la sofferenza e le dirò che fino a un certo punto la sofferenza è un arricchimento utile, forse perfino necessario. Ma c’è un limite. Oltre quel limite la sofferenza è solo dolore.
Non è più semplice buttarsi sotto un treno?
Bisogna avere coraggio. E chi non ce l’ha come il sottoscritto?
Sua moglie è cattolica, come vede questa sua missione?
Ci rispettiamo. Io so che, se dovesse succedere a lei, non farei nulla per mettere fine alle sue sofferenze. Anche se sarà doloroso per me e per lei.
E se succede a lei?
I miei figli sanno già tutto. Mando una bella lettera: «Oggi sono a Basilea e domani non ci sarò più. Sapete come la pensavo, rispettate la mia volontà». Poi le ceneri vanno in Sardegna, di fronte a Cala Greca. A mio figlio ho lasciato le coordinate Gps, proprio dove andavamo a pescare. Io sarò lì, con i miei amici pesci e i miei amici gabbiani.