Crisi turca: Erdogan si sopravvaluta, Trump lo ridimensiona
Tensione tra Ankara e Washington. Ma gli Usa sanno quanto sia strategica la Turchia per la Nato e il Sultano sa che i despoti cadono per i propri fallimenti economici
Estate, tempo di speculazioni. A farne le spese nel mese di agosto è stata l'economia turca che, nonostante una forte crescita (arrivata al 7% lo scorso anno), paga l’alta inflazione e soprattutto una gestione “familiare” del ministero delle Finanze, recentemente affidato dal presidente Erdogan al genero, Berat Albayrak, nel quadro di un percorso volto ad avocare a sé ogni forma di controllo e di potere in Turchia.
I motivi di tensione tra Turchia e Usa
Ciononostante nessun dramma all’orizzonte e semmai ecco emergere un nuovo capitolo dello scontro in atto tra Ankara e Washington, che si sostanzia di numerosi episodi che negli ultimi anni hanno allontanato l’alleato migliore della Nato in Medio Oriente dalla politica occidentale. Basti ricordare i flirt turchi con Mosca e l’acquisto da parte del governo del sistema missilistico S-400 russo, che ha innervosito non poco l’Alleanza Atlantica e in particolare il Pentagono, accusato a sua volta dai militari turchi di sostenere indebitamente le milizie curde in Siria, loro acerrimi nemici nella delicata fase post-Califfato. Inoltre, l’annuncio turco di voler aggirare le sanzioni imposte da Washington contro Teheran non ha certo giovato nella costruzione di un miglior dialogo a livello diplomatico.
Si aggiungano, infine, gli arresti dimostrativi di attivisti americani, come il pastore Andrew Brunson - il cui rilascio è ancora in sospeso - e le parole al veleno pronunciate dal presidente Erdogan sui dazi imposti dall’America al suo paese, nell’ambito delle grandi manovre economiche volute dall’attuale amministrazione Usa, meglio note come “Make America Great Again”.
La speculazione dei mercati
Eppure, niente di tutto ciò è strettamente correlato alla caduta vertiginosa della lira turca, un fenomeno che è iniziato sin dai primi giorni del 2018 e che ha portato la valuta nazionale turca a perdere oltre il 40% del suo valore. Dunque, al di là delle accuse pretestuose di Erdogan contro la politica di Trump, quello che accade in Borsa sembra più che altro una classica speculazione dei mercati, che non credono più così tanto nella lucidità del governo turco e ancora meno scommettono sulle sue ricette economiche da qui ai prossimi anni.
“La Turchia ha uno dei sistemi bancari più solidi del mondo, sotto tutti gli aspetti”, ha però voluto rassicurare il presidente turco, specificando nel merito: “Possiamo fare due cose, una nell’economia e l’altra nella politica. Dobbiamo adottare misure di cui ha bisogno l’economia e continuare a farlo... La cosa più importante, io credo, è quella di mantenere forte la nostra posizione politica”. Una frase che si spiega da sola.
È dunque tutta qui la sfiducia dei mercati nei confronti di Ankara: le parole del leader turco non convincono gli investitori proprio per via delle scelte apparentemente troppo ardite compiute dal suo paese in particolare negli ultimi due anni. Tradotto, l’accentramento del potere operato dal partito di governo Akp potrebbe nel lungo termine costituire un fattore di rischio anziché di stabilità.
Al contrario, le mosse (non meno azzardate) di Washington per il momento non fanno che premiare la bilancia economica Usa e, soprattutto, hanno dato rilancio al mercato del lavoro, che vede allontanarsi la crisi occupazionale ridando fiducia agli investitori. Con buona pace dei detrattori interni, che devono pressare la Casa Bianca più sulle scelte politiche che non economiche, essendo questa una fase estremamente favorevole per l’America.
Le relazioni "pericolose" ma necessarie
Così, mentre la Turchia del "Sultano" si affanna nel pervicace tentativo di affermare il primato politico sull’economia e sulla società turca, la Casa Bianca si adopera invece - anche attraverso i dazi - per correggere alcuni squilibri macroeconomici che poco hanno a che fare con Ankara e che semmai hanno afflitto gli Stati Uniti a livello mondiale durante l’era Obama, nel tentativo di raddrizzare alcune delle “distorsioni create dalla globalizzazione che si sono abbattute in maniera sproporzionata, tra gli altri, sul ceto medio manifatturiero dei Paesi occidentali”, come ben sottolineato da Moneyfarm.
In conclusione, chi profetizza un disastro economico o un ulteriore deterioramento dei rapporti tra Turchia e Stati Uniti, è fuori strada. Si tratta infatti di due paesi che conoscono bene il peso specifico delle minacce e, così come gli Usa sanno quanto sia strategica la Turchia per la Nato, così Erdogan è consapevole che i despoti cadono sempre in ragione dei propri fallimenti economici.
Dunque, le “relazioni pericolose” Usa-Turchia hanno bisogno di restare tali. E pazienza se gli strali di Erdogan sono giunti sino alla soglia della Casa Bianca, l’importante è non farli entrare e lasciare che tutto si sgonfi da sé. Cosa che Trump è abituato a fare, giornalmente. In definitiva, come scrive l’analista Davide Tentori, i veri rischi per la Turchia sono soprattutto di natura geopolitica: “il progressivo allontanamento di Ankara dagli alleati europei e dagli Usa, in seguito all’irrigidimento di Erdogan dopo il tentato golpe del 2016, e l’atteggiamento ambiguo tenuto da quest’ultimo nella gestione della crisi siriana, rischiano di isolare la Turchia e di accrescere l’instabilità politica in un’area chiave per gli equilibri globali”.
Questo è il vero pericolo che si nasconde dietro le frenesie dei mercati. Una Turchia sempre più isolata potrebbe fare molti più danni di una svalutazione della sua moneta.