I giovani reclusi che dicono no alla vita
Stanno in camera tutto il giorno, connessi ma senza contatti con l'esterno. Sono 100mila i nuovi eremiti per la disperazione dei genitori
Prigionieri di sé stessi. Iperconnessi e soli. Una gioventù bloccata nel tempo e nello spazio, che si rifiuta di crescere. E si ritira dal mondo. «Sono un hikikomori» dice Marco Brocca, 23 anni, parlando a voce bassa dalla sua casa di Treviso, dove vive recluso da quasi dieci anni. «Tutto ha avuto inizio a 13 anni. Non mi trovavo bene con la mia classe. Stavo male, soffrivo di una forte dermatite, nessuno mi capiva. A 16 anni, dopo essere stato umiliato in classe da una professoressa, ho detto basta. E ho smesso di andare a scuola». Marco per mesi non è uscito dalla camera. «Alleno una squadra di calcio sul pc con calciatori da tutto il mondo. Gioco fino alle cinque del mattino, mi sveglio alle tre del pomeriggio. Di notte mi sento al sicuro. Al mattino cresce l’ansia. Il computer è il mio mondo. Non ho mai avuto una fidanzata. Ho paura di soffrire ancora, come quando ero alle medie». I genitori sono separati e in famiglia nessuno ha preso bene la sua scelta. «Mi dicevano che ero pigro, un inetto, uno che non aveva voglia di fare niente. Solo mia madre mi ha capito. L’ho portata allo sfinimento, ma ha compreso il mio dolore e mi ha sostenuto». Ha capito che non era il solo a comportarsi così, ma era un «hikikomori», parola giapponese che significa stare in disparte, ritirarsi. In Giappone, dove il fenomeno è nato negli anni Ottanta, si stima che siano un milione gli autoreclusi. Una generazione perduta. In Italia i dati parlano di 100 mila ragazzi. Ma sono molti di più, c’è un mondo sommerso che ha paura a mostrarsi. Eppure moltissimi sono stati i genitori che tramite l’Associazione Hikikomori Italia, fondata nel 2017 dallo psicologo Marco Crepaldi, si sono fatti avanti per raccontare la loro storia. Un dolore profondo difficile da affrontare. La parola chiave è vergogna. «È l’elemento fondamentale. La vergogna ti porta a sparire, a nasconderti» spiega lo psicoterapeuta Antonio Piotti, tra i primi in Italia a occuparsi di ritiro sociale, autore del saggio Il banco vuoto. Diario di un adolescente in estrema reclusione (Franco Angeli). Nulla viene perdonato dai coetanei, neanche un brufolo, siamo in una società prestazionale, dove la bellezza è centrale e lo sguardo dell’altro il giudice più temuto. Spiega Piotti: «Se ti senti brutto, goffo, impacciato l’unica soluzione è togliere di mezzo quel corpo che ti fa soffrire e vivere in una realtà virtuale dove non ne hai più bisogno. E così non devi sottostare ad aspettative sempre più alte. Internet li protegge e nello stesso tempo imprigiona». Nella società dell’apparire un figlio che invece vuole sparire sembra inconcepibile. Irma Bonanno, madre e insegnante di Catania con un figlio di 14 anni, vuole metterci la faccia: «Magari potrà servire a fare coraggio ad altre famiglie». Racconta: «In prima liceo di colpo ha smesso di andare a scuola. Si è chiuso in camera, usciva solo per mangiare o se doveva comprare qualcosa per il computer. Non gioca più a calcio. Gli amici passavano a cercarlo, ma lui si negava. Da otto mesi è così. Non so dove sbattere la testa. Sono separata, mio marito non è presente». «La scuola a febbraio mi ha consigliato di ritirarlo per evitare la bocciatura» continua. «Così ho fatto e il giorno seguente mi sono trovata a casa gli assistenti sociali. Un altro disagio. Lui non mi ha mai spiegato nulla. Quando entro in camera urla: “Esci, vattene”. Guarda Netflix, gioca con la PlayStation o semplicemente sta sdraiato sul letto. Di notte lo sento parlare in cuffia con gli amici conosciuti sul web. I parenti mi dicono: “Se fossi al tuo posto lo avrei preso a sberle. Invece tu non fai niente”. Chi non vive questa realtà non può capire». Sindrome sociale, colpisce nell’80 per cento dei casi i maschi. In Giappone soprattutto primogeniti o figli unici, ma il numero delle ragazze è in continuo aumento. Solitamente si tratta di intelligenze sopra la media, carriere scolastiche brillanti interrotte e mai riprese. Gli anni di ritiro vanno da tre fino a dieci. Una piccola percentuale si spinge anche oltre. Famiglie benestanti, genitori spesso laureati. Ultimamente il fenomeno si sta diffondendo anche nelle classi medio-basse. Padri perlopiù assenti, madri iperprotettive. Un’alta incidenza di coppie divorziate. «Sono sicura che ci sia un mondo di cui nessuno parla. Ragazzi che all’improvviso spariscono da scuola. All’inizio non ci facevo caso, ora so cosa succede» racconta una madre milanese. «Mio figlio ha 18 anni, quest’anno farà la maturità, ma è stata durissima. Dalla prima media ha manifestato questo disagio. Non voleva andare a scuola. Lo portavo di peso. Lui diceva che stava male, aveva mal di testa, dissenteria. Sui banchi era assente e mi sentivo ripetere: “Può fare, ma non fa”. Gli abbiamo regalato una PS4 e lui ci passava sempre più tempo. Quando ha iniziato il liceo le aspettative erano più alte. Così si è rifugiato nella sua stanza. Era molto ingrassato, lo sguardo vuoto, se non giocava stava sdraiato sul letto. Anche per i fratelli era una sofferenza immensa. Parenti e amici ci guardavano come fossimo degli incapaci. Poi un’amica mi parlò degli hikikomori giapponesi e ho capito che lui era uno di loro». Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro, ha appena pubblicato il saggio Il ritiro sociale negli adolescenti (Raffaello Cortina Editore). «Dieci anni fa arrivarono da noi i primi ragazzi. Giocavano ai videogame tutta la notte, di giorno dormivano e non andavano a scuola. Alla base di questa scelta di solito c’è una delusione, un caso di bullismo, anche solo una frase sbagliata. C’è il crollo dell’Ideale dell’Io. Si cresce in una società individualistica, dove i ragazzi sono fragili. La scelta radicale diviene il ritiro nella propria casa che consente di allontanarsi dagli sguardi giudicanti dei pari, dalle emozioni». Concetta Signorello, madre di un venticinquenne, riflette: «Se mi chiedono da quando lui è un hikikomori, io rispondo da sempre. Ricordo una frase della sua maestra: “I ragazzi come suo figlio non sono rulli compressori, ma questa società richiede che lo siano. Chi non si allinea viene schiacciato”». L’estate è dolorosa, come spiega Lancini: «Un ritirato sociale non va al mare, è impensabile che si metta in costume da bagno». Il corpo va nascosto, il sesso non interessa. Molti hikikomori si professano asessuali. Il primo campanello d’allarme è l’abbandono della scuola. L’anno critico scatta solitamente in seconda o terza media, oppure durante il primo anno di liceo. Ma ormai ci sono ritirati sociali molto giovani, come il figlio di M.V che ha solo 11 anni: «È stata una chiusura graduale, iniziata in prima media. Era uno studente modello, ma non voleva più frequentare. Fu lui a dirmi “sono un hikikomori”, io non avevo mai sentito quella parola». Dalla provincia di Agrigento la madre lo porta con sé in una città del Nord dove lavora, ma le cose non migliorano. «Camminava guardando per terra, diceva che era brutto. Per due anni è rimasto nella sua camera. Era raro mangiare insieme, gli portavo un vassoio. Si interessa all’astronomia e al latino, che studia per conto suo. Mi ha detto che con i compagni non poteva parlare di queste cose. Sua nonna è stata molto dura, lo spingeva fuori dalla stanza, urlava. Io non ci riuscivo. Penso che abbia bisogno di tanta comprensione». Amore e una paziente attesa. Come nella storia di M.R, torinese, anche lei con un figlio adolescente: «Le prime avvisaglie sono arrivate a 13 anni dopo ripetuti atti di bullismo a scuola. Tutto è iniziato con una professoressa che lo umiliava davanti ai compagni. Aveva voti bellissimi, ma non ce la faceva a sopportare la situazione. Mi diceva: “Non è che non voglio, non ci riesco”. Chiuso a chiave in camera, tapparella abbassata, usciva solo di notte per saccheggiare il frigo. Siamo diventati reclusi sociali anche noi. Mio marito è della vecchia scuola. Sono venuti alle mani, è intervenuto il 118 un paio di volte. Oggi è in cassa integrazione. Così sono tutti e due a casa. Lui chiuso in camera. Mio marito nel suo dolore». Per i padri è ancora più difficile da affrontare, come confessa un genitore romano: «L’ho sgridato molto. E ho sbagliato. Ma la mia generazione viene da una storia diversa. I genitori si imponevano, i figli ubbidivano. Credo che la nostra educazione morbida sia uno dei motivi della loro crisi. Li abbiamo cresciuti nella bambagia, incapaci ad affrontare le difficoltà. Non siamo stati in grado di dargli le armi per affrontare questo mondo». Eremiti metropolitani profondamente narcisisti. E ormai ci sono anche le ragazze. Come racconta L.Q, madre piemontese di un’adolescente: «Aveva 12 anni quando si è ritirata. Stava a letto, non si alzava, non si lavava, si lasciava andare. Rifiutava qualsiasi contatto. Ha smesso anche di mangiare con noi. Guarda i social, segue alcuni YouTubers. So che a scuola è successo qualcosa. L’hanno presa in giro per i vestiti non all’ultima moda, l’hanno messa da parte durante un lavoro di gruppo. Oggi da sola studia l’inglese e il giapponese. E noi abbiamo riorganizzato la nostra vita per lei». Non bisogna rompere la bolla esistenziale dentro cui vivono, ma in punta di piedi provare a entrarci. Anche se sono uomini e non più ragazzi. Spiega una madre del Lazio, con un figlio di 25 anni: «Da sei vive nella sua camera. Dopo la maturità non è più uscito. Dieci ore davanti al computer, gioca con gli amici virtuali. Solo così è contento. Se gli togliessi Internet lo ucciderei. Quando è buio e la casa deserta esce per mangiare qualcosa. Cerco di parlargli, ma lui mi risponde “Sei tu che hai problemi, io sto bene così”. Non ha autostima, anche se è un bel ragazzo. Non vuole responsabilità, né crescere. Neanche i carcerati vivono così. Loro almeno escono durante l’ora d’aria. Quando gli ho chiesto cosa volesse fare del suo futuro mi ha risposto: “Ci sto pensando”». Migliaia sono i genitori iscritti all’Associazione Hikikomori Italia, l’unico punto di riferimento per le famiglie, che con più di quaranta gruppi di mutuo aiuto è riuscita a farli sentire meno soli. Il fondatore Marco Crepaldi è il loro unico faro: «Da una nostra indagine è emerso che il fenomeno è più presente al Nord, mentre il Lazio è la regione con più casi. La pulsione all’isolamento di un hikikomori non dipende mai esclusivamente dall’attrazione verso la Rete. Non è internet la causa del disagio, anzi toglierlo può solo peggiorare la situazione. Il computer è la loro finestra sul mondo, l’unico mezzo di contatto con la società esterna e anche il principale strumento di svago». Umberto C, vedovo, vive a Roma con il figlio diciassettenne. «Al secondo anno delle superiori, un istituto tecnico informatico, non ha più voluto frequentare. Non si alzava dal letto. Lo chiamavo, urlavo e lui si girava dall’altra parte. Dovevo andare a lavorare e mi sentivo morire a lasciarlo lì da solo al buio davanti al computer. È sempre stato un ragazzo socievole, con molti amici, nessun problema di bullismo. Intelligente, ipersensibile. Diceva solo che il mondo esterno non lo interessava. A volte usciva dalla stanza per mangiare. Noi due soli, in silenzio. Ha cancellato dal cellulare tutti i numeri degli amici e per due anni lo ha tenuto spento. Ho fatto di tutto. Ho tentato ogni escamotage per farlo uscire. Quest’anno l’ho iscritto in una piccola scuola privata. In classe sono solo sette e dopo due anni di assenza lui è tornato. Non sono riuscito a capire cosa gli sia successo. E ancora non posso dire che sia guarito». È l’espressione di una ribellione solitaria al mondo conflittuale e competitivo che gli abbiamo confezionato noi. Conclude la psicoterapeuta Michela Parmeggiani: «A scuola gli proponiamo solo programmi che li annoiano. Non abbiamo avuto l’umiltà di ascoltarli. Li abbiamo trasformati in oggetti di consumo, triturati in vite frenetiche. E allora è meglio ritirarsi e vivere su un’altra dimensione». Un mondo celato al mondo.
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