È tempo di dare ai carcerati gli affetti che gli spettano
In Italia non c'è una norma unica per gestire i permessi ai detenuti in modo da assicurare a loro il diritto agli affetti ed all'intimità previsti dalla Costituzione
Un diritto inviolabile, ma di fatto compresso e umiliato. In Italia sono migliaia i detenuti che, estromessi dalla possibilità di accedere ai permessi premio, si ritrovano a dover fare i conti con il muro di gomma che gli impedisce di mantenere un legame stabile e soddisfacente con il proprio nucleo familiare e, inutile negarlo, anche col proprio partner. Al netto di un'unica eccezione, quella di Opera, la totalità delle carceri del Belpaese non è ad oggi attrezzata per concedere momenti di intimità a quelli che, nel gergo penitenziario, vengono definiti «ristretti».
«La privazione di momenti e spazi di affettività con la moglie o con il marito, imposta dall'ordinamento italiano ai reclusi delle sue carceri, deve ritenersi una violazione ingiustificata del diritto alla sessualità. Arrestare, annientare per un periodo prolungato la fisicità dei rapporti di un detenuto significa concretamente menomarlo, amputarlo della sua identità», è il monito lanciato da Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale.
Quello che ne viene fuori è un quadro a tinte più fosche che mai: «Poiché non vi è dubbio - ragiona l'avvocato Tirelli - che l'attività sessuale faccia parte del ciclo vitale dell'uomo, inibirla e interromperla può evidentemente ledere l'integrità e la salute, tutelate dall'articolo 32 della Costituzione, di chi ne sia privato, potendo in questi generare una serie di traumi psicofisici».
Il rischio, ancora una volta, è che la pena da scontare finisca per essere tutt'altro che rieducativa, spingendo anzi il detenuto verso facili recidive e stati di alienazione sociale. Sul punto, la denuncia del presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale è durissima: «L'annichilimento di sessualità e affettività in carcere contribuisce, oltre alla manifestazione di episodi di omosessualità eteroimposta, anche al registrarsi di fenomeni di autoerotismo compulsivo e patologico, di stupri, nonché di atti di autolesionismo e suicidio fra i carcerati. Questo avviene più sovente fra i soggetti condannati a pene detentive lunghe o molto lunghe, così che la privazione di una sessualità condivisa con un partner possa altresì ritenersi, in taluni casi, vera e propria lesione dello scopo rieducativo e risocializzante che, ai sensi dell'articolo 27 della Costituzione, la pena deve avere».
Gli Stati generali dell'esecuzione penale, istituiti nel 2015, a seguito dell'ennesima condanna pronunciata dalla Corte europea dei diritti umani nei confronti dell'Italia, hanno proposto l'introduzione dell'istituto della visita, diverso dal colloquio, da svolgersi in forma riservata, senza cioè alcun controllo audiovisivo, nelle cosiddette stanze dell'affettività, comode e strumentali unità abitative, edificate o ricavate in ogni istituto penitenziario, le cui manutenzione e pulizia siano affidate direttamente ai detenuti: «Il progetto - commenta amaro l'avvocato Tirelli - è stato però incomprensibilmente accantonato nel 2018, con una riforma dell'ordinamento che si è limitata a dire, sull'argomento, che i luoghi adibiti ai colloqui dovrebbero garantire "ove possibile, una dimensione riservata"».
Da qui l'urgenza di un appello che lo Stato non può più permettersi di far cadere nel vuoto: «Ci rivolgiamo al Parlamento - conclude il presidente delle Camere Penali del Diritto europeo e internazionale - affinché si faccia carico di intervenire con una proposta di legge che, approfittando della riforma dell'ordinamento giudiziario attivata dal ministro Cartabia, integri finalmente la possibilità per i detenuti di beneficiare di concreti e periodici momenti di affettività e sessualità».