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Cuba, povera rivoluzione

Redditi bassi, prezzi dei beni alle stelle, razionamenti. Nell'avamposto socialista la vita è sempre più complicata

«E' solo una questione anagrafica perché a Cuba crolli la dittatura: bisogna attendere che trapassino gli ultimi reduci della revolución che prese il potere il 1 gennaio del 1959». Questa frase «off the record» di un ambasciatore italiano d’alto rango è oramai un leitmotiv all’Avana. «Devono solo morire Raúl Castro e i suoi generali e poi, inevitabilmente, le cose miglioreranno anche qui» gli fa eco Douglas, giovane autista di uno scassatissimo taxi mentre porta chi scrive a zonzo per l’Avana Vecchia, il centro storico, che «sembra la Germania del Secondo dopoguerra per colpa dei pazzi che ci governano da 60 anni».

Come definire se non «pazza» la proposta fatta dal generale Leopoldo Cintra Frías, ministro delle Forze armate rivoluzionarie, che alla tv di Stato ha consigliato ai suoi connazionali di mangiare jutía - un roditore indigeno del Caribe - coccodrilli e struzzi? «La jutía ha più proteine di tutti gli altri tipi di carne, compresa quella bovina e per giunta ha una pelle di altissima qualità» ha affermato il braccio destro di Raúl, invitando i cubani ad allevare questa sorta di nutria per poi aggiungere che «lo struzzo produce più delle vacche». Ovviamente tutti i giovani dell’isola caraibica hanno sbertucciato via social questo 77enne «eroe della revolución».

Il problema vero è che alle promesse del regime non crede più nessuno e la vita è in povertà per chi guadagna al mese un salario statale da 30 dollari, con prezzi che sono la metà di quelli italiani e una tessera annonaria che può garantire alimenti a una famiglia per appena una settimana. Senza rimesse dall’estero in dollari o euro è impossibile vivere, e con queste si sopravvive a stento. Il risultato? Quello di sempre nei regimi comunisti, ovvero file interminabili ma, sempre più spesso, anche proteste. L’ultima a giugno è stata una manifestazione per chiedere acqua davanti al vecchio Palazzo delle Orsoline vicino al mercado Egido, a pochi passi dalla prima sede del governo di Fidel Castro, il Capitolio. La gente ha bloccato il traffico, è intervenuta la polizia ma almeno all’inizio non ci sono stati arresti, una rarità da queste parti. «Sono quasi venti giorni che siamo senz’acqua, siamo stanchi» racconta esasperata una signora di mezza età «qui ci sono anziani, bambini malati sotto un sole cocente e invece di mandare camion cisterne il governo non fa nulla!». Intanto una giovane la filma col cellulare e il giornalista dissidente Yusnaby Pérez riversa su Facebook il video, ottenendo in breve tempo migliaia di visualizzazioni.

«Qui si fa la fila per tutto» protesta Miguel, che da anni ospita nella sua casa particular (bed and breakfast) turisti che arrivano da tutto il mondo, affascinati da una città che è ferma a fine Anni 50. A maggio, per esempio, nella provincia di Santa Clara è sbarcato l’olio di semi: «Mancava da tempo immemorabile, subito si è sparsa la voce e la gente si è azzuffata perché se arrivi tardi finisce e poi tocca aspettare un altro mese per friggere il pesce» spiega Edenita, vecchia proprietaria di un baracchino in cui vende dai dolciumi a una sorta di imitazione di onion rings in versione casereccia, cipolle fritte avvolte nella carta del Granma, il quotidiano di regime che nei momenti di crisi come l’attuale i cubani usano più come carta igienica che come fonte informativa.

Vende anche una sorta di caffè che, giura lei, fa con una moka italiana regalatale da una coppia di bergamaschi ma, alla terza tazzina bevuta senza riuscire a risvegliarsi dal torpore di questa torrida estate habanera, ti confessa che al posto della miscela ci aggiunge il 50 per cento di ceci tostati. Risultato? Il sapore somiglia a un nostro caffè lungo ma intanto non ti svegli e poi è come bere una feijoada liquida, con tutte le conseguenze del caso. Edenita è una delle migliaia di cuentapropistas (quelli che in Italia chiameremmo il popolo delle partite Iva) ed è furente perché tartassata dal governo con una tassazione elevatissima a prescindere dai reali guadagni.

Che i cubani abbiano perso la paura di protestare lo ha capito persino il primo presidente che non fa Castro di cognome da 60 anni, Miguel Díaz-Canel. In visita a un quartiere colpito da un tornado a fine gennaio, è stato costretto velocemente alla ritirata con la coda tra le gambe perché fischiato dalla popolazione locale, stipata in aree che se fossimo in un altro Paese da tempo i media chiamerebbero favelas. Solo che siamo a Cuba e non è politicamente corretto per gli intellettuali scrivere che senza le rimesse dall’estero qui i poveri sarebbero l’80 per cento della popolazione.

Del resto c’è poco da fare, se si nasconde tutto dietro a un’ideologia stantia il risultato è questo: case pericolanti, tubature che perdono acqua, code infinite per acquistare pane, uova, pollo, olio e medicine. Persino per il pesce, che in un’isola dei Caraibi dovrebbe essere l’alimento più a portata di mano. Questo in teoria. Invece il governo «controlla» e «libera» la vendita pure delle sardine, garantendo un pesce per tre persone con la libreta, la tessera annonaria. «C’è bisogno di una vera operazione chirurgica visto che con i 30 centimetri di pesce che ci è toccato in sorte dobbiamo mangiarci io, mio marito e qualcosa deve restare per Toti, il nostro gatto» ironizza Yoani Sánchez, altra giornalista indipendente che grazie al Web è diventata una celebrità raccontando al mondo la surreale quotidianità dei cubani.

«Sembra che debbano partire per la guerra in Venezuela». Bruno è un turista italiano che, da oltre trent’anni, trascorre a Cuba almeno due mesi l’anno e descrive così la mobilitazione che da inizio 2019 il regime ha dispiegato con tutto il suo apparato di propaganda. Scolaresche delle elementari vengono fatte sfilare ogni mattina nel centro dell’Avana, al pari dei funzionari statali per confermare il più classico Socialismo o muerte!, lo slogan castrista fatto suo da Hugo Chávez. Il problema è che da gennaio Donald Trump ha rafforzato l’embargo contro Caracas e senza il petrolio venezuelano, oltre alla mancanza d’acqua e al razionamento alimentare per il popolo, sono tornati anche i «blackout programmati». Come dopo il crollo dell’impero sovietico in quello che i cubani ancora oggi ricordano con terrore come il periodo especial.

«Ci toglievano la corrente fino a tre giorni di fila e ci si doveva ingegnare. Poi al terzo giorno, quando tornava la luce si sentivano dappertutto grida di gioia perché “finalmente” era ricomparsa», ricorda Cristian Crespo, attivista per i diritti umani. «Questa è la classica gestione comunista di un servizio di base» aggiunge «la stessa modalità che c’è per cibo, medicine e il resto. La luce tornava pochi minuti prima della messa in onda della telenovela brasiliana, allora il massimo dello svago per il cubano medio». Oggi però c’è la Rete e le soap verde-oro non calamitano più i giovani. Loro aspettano che Raúl e i suoi generali «trapassino». 

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Paolo Manzo