​Afghanistan, talebani
Ansa
Dal Mondo

Afghanistan: dove abbiamo sbagliato?

Il 15 agosto sono tre anni dal disordinato ritiro dei contingenti occidentali dall’Afghanistan. Il Generale di Corpo d’Armata Giorgio Battisti (che firma questo articolo) spiega a Panorama lo stato in cui versa il paese dopo la «fuga da Kabul».

Il 15 agosto sono tre anni dal disordinato ritiro dei contingenti occidentali dall’Afghanistan, quale conseguenza degli Accordi di Doha (29 febbraio 2020), che hanno di fatto ceduto il Paese agli studenti coranici (modello accordi Parigi per il Vietnam del Sud del 1973), con l’accelerazione nel ritiro delle ultime migliaia di soldati USA voluta dal Presidente Trump e con modalità e tempi sbagliati imposti dal Presidente Biden. In questo modo, in un caldo agosto del 2021, vent’anni dopo l’avvio dell’intervento Internazionale in Afghanistan, sono andati perduti tutti i risultati faticosamente (e sanguinosamente) raggiunti e le conquiste sociali ottenute, soprattutto quelle relative al ruolo delle donne, delle bambine e delle minoranze etniche.

Una “fuga da Kabul” che, dopo le forti emozioni suscitate per l’ampia copertura mediatica, non desta più alcun interesse sia per l’attenzione rivolta all’aggressione russa dell’Ucraina ed al conflitto nel Medio Oriente sia per dimenticare la poco onorevole evacuazione occidentale da quel Paese. Pur con le evidenti difficoltà di contenere il ritorno dell’insorgenza talebana, le aspettative erano positive, malgrado l’improvvida decisione del Presidente Obama di preannunciare nel dicembre 2009, in occasione di un intervento all’Accademia Militare di West Point, il graduale ritiro dei militari statunitensi a partire dall’inverno 2011. Un ripiegamento che, a meno di alcuni reparti, doveva terminare entro il 2014, in quanto – a suo dire – erano stati raggiunti gli obiettivi della missione (thanks to the tremendous progress U.S., coalition and Afghan troops have made). Diverse sono le cause che hanno portato al ritorno dei Talebani: la classe politica, la frammentazione etnica, la droga e la corruzione. Fattori destabilizzanti tra loro strettamente interconnessi, dove la corruzione era l’elemento catalizzatore di quella tragica realtà.

A questo si associa la presunzione occidentale dell'etnocentrismo di dare priorità ai valori della nostra cultura quando si analizzano le altre culture e ritenere di sapere meglio dei locali cosa serva loro in termini di riferimenti politici, sociali ed economici. Cercare di promuovere dall’esterno la democratizzazione, ignorando che non bastano le istituzioni democratiche per generare democrazia in culture che, qualunque siano i loro meriti, non hanno una società di modello occidentale, ha provocato la caduta di alleati fidati, come lo Shah di Persia o il Presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem, ed ha agevolato l’instaurazione di regimi ostili e ancora più autoritari. La lotta alla droga non è mai stata vista come una priorità e non si è mai cercato di raggiungere alcun tipo di sforzo comune, anche per i diretti coinvolgimenti di alcuni esponenti governativi di spicco. Secondo una visione tradizionale del concetto di counterinsurgency, che prevedeva di combattere la guerriglia militarmente, il problema della droga era ritenuto secondario ed una distrazione di risorse nel contrastare gli insorti, malgrado le esperienze maturate in Sud America negli anni ’70 avessero dimostrato a Washington lo stretto legame tra guerriglia e droga.

Il livello di corruzione nei settori pubblico e privato era una forte minaccia per il successo della missione e per la vitalità dello Stato afghano. La corruzione minava la legittimità e l'efficacia del governo, rendeva i criminali e le loro reti clientelari sempre più forti, alimentava il malcontento tra la popolazione e generava sostegno attivo e passivo all'insurrezione. La corruzione dei pubblici ufficiali ha garantito ai trafficanti di droga l’impunità ingenerando una diffusa cultura dell’illegalità, che ostacolava la crescita economica del Paeseperpetuando così la dipendenza dall'assistenza internazionale. Tale fenomeno era ampiamente noto in ambito Comunità Internazionale e, pur consapevoli dei danni che provocava, non è mai stato contrastato per varie ragioni in modo deciso. Un problema dovuto anche ai “donatori” (istituzionali, governativi e non governativi) che non sempre hanno controllato (o voluto controllare) la destinazione, gestione e impiego dei fondi e la distribuzione degli aiuti (situazione ricorrente in tali missioni). In Afghanistan è mancato sin dall’inizio un indirizzo unitario nella condotta dell’intervento, che non ha consentito di definire l’End State da conseguire al termine dell’impegno internazionale da cui doveva discendere una coerente Exit Strategy e le risorse necessarie per la condotta delle operazioni.

In vent’anni si sono succedute quattro missioni (International Security Assistance Force, Resolute Support Mission, Enduring Freedom, Freedom’s Sentinel) con finalità, regole d’ingaggio, caveat e modus operandi diversi.

Una “coalizione di più coalizioni” caratterizzata dalla mancanza di un disegno politico condiviso nell’impiego dei contingenti militari per il prevalere delle posizioni (interessi) nazionali. All’apice del coinvolgimento internazionale erano presenti in Afghanistan soldati, forze di polizia e contractor provenienti da 51 Nazioni dell’Alleanza Atlantica e dei Paesi partner. L’accusa (scusante), inoltre, di attribuire la colpa della rapida vittoria talebana esclusivamente alla mancanza di spirito combattivo delle forze di sicurezza locali appare ingiusta; oltre 66.000 soldati e agenti di polizia sono caduti nella lotta contro gli insorti: questi non sono numeri delle perdite di un esercito che ha paura di combattere! Il disfacimento delle Afghan National Defence and Security Forces (ANDSF) è dovuto all'incapacità e disonestà dei livelli più alti delle istituzioni governative. Corruzione, nepotismo e perseguimento di interessi personali hanno pervaso le forze di sicurezza e minato la loro volontà combattiva (i fondi destinati al carburante, alle munizioni, agli equipaggiamenti e agli stipendi erano dirottati regolarmente verso funzionari e ufficiali corrotti).

Ma anche i Paesi della Coalizione hanno le loro responsabilità per le modalità con cui hanno impostato, diretto e condotto la ricostruzione delle forze afghane. Questo è potuto accadere nella presunzione di aver voluto addestrarle secondo i canoni occidentali, senza tener conto che per formare una Forza Armata convenzionale servono decenni, una solida classe di comandanti e una ferma decisione politica, soprattutto quando la mentalità è completamente diversa, come si era già visto per le Forze Armate irachene. Le attività degli addestratori stranieri hanno spesso contribuito a “far disimparare” a combattere gli Afghani, pretendendo di insegnare loro – che sono, non dimentichiamolo, i guerrieri più temuti dell’Asia Centrale – gli schemi operativi occidentali. Ora, dopo 23 anni dagli attentati alle Torri Gemelle, l’Afghanistan è ritornato ad essere un “rifugio sicuro” di molti gruppi terroristici. Secondo i periodici rapporti del UN Analytical Support and Sanctions Monitoring Team sono circa 20 le formazioni attive ai due lati della Linea Durand, che segna il confine tra Afghanistan e Pakistan, senza dimenticare la presenza dell’Isis-K che cerca di realizzare in quella regione il Califfato universale del Khorasan.

Una realtà che ha portato persino il ministro della Difesa russo a affermare nella riunione di giugno 2024 in Kazakistan dello CSTO (Collective Security Treaty Organization) che la principale fonte di instabilità nell’Asia Centrale rimane l’Afghanistan e che numerosi gruppi radicali e terroristici stanno prendendo piede. Una dichiarazione ancora più veritiera tenuto conto che Mosca (unitamente a Cina ed Iran) ha instaurato relazioni diplomatiche con il regime di Kabul. La società afghana si sta progressivamente impoverendo. Le donne sono scomparse dalla vita quotidiana rimanendo sempre più relegate tra le mura domestiche; l’istruzione femminile è ridotta ai minimi termini. Milioni di Afghani, soprattutto tra le classi più acculturate, sono fuggiti o cercano di fuggire, rendendo sempre più complicato per i talebani governare il Paese ed impiegare anche i milioni di dollari che periodicamente ricevono dall’estero (soprattutto dagli USA) – senza i quali la situazione sarebbe ancora più drammatica – per l’assenza di impiegati professionalmente preparati negli uffici statali.

Questa sconfortante situazione dovrebbe far sorgere a tutti noi una domanda: dove abbiamo sbagliato in vent’anni di impegno in Afghanistan? Le risposte potrebbero essere innumerevoli a seconda dei punti di vista. Sicuramente è possibile affermare che alcune cause di questo fallimento sono dovute alla nostra convinzione di presuntuosa superiorità etico-morale (voler indire elezioni democratiche in Paesi che non sanno e non capiscono cosa esprima il termine democrazia), all’aver sostenuto consapevolmente governi corrotti e all’aver imposto a capo di questi governi personaggi distanti dalla realtà locale, individuati dalla Comunità Internazionale tra le élite economiche ed intellettuali di formazione cosmopolita (come in Iraq e in Libia) in quanto maggiormente propensa a condividere i modelli occidentali (un’élite non è rappresentativa della società, soprattutto quando ha vissuto per anni all’estero). Essersi inoltre basati in campo operativo, per conseguire un successo decisivo, sulla superiorità dell’approccio militare occidentale e sui sistemi d’arma più avanzati, che invece sono stati neutralizzati nei deserti rocciosi e nelle aspre montagne dell’Hindu Kush da indomiti guerriglieri. Ma soprattutto, non essere riusciti a capire le esigenze quotidiane di quelle popolazioni divenute “terreno di confronto” degli interventi!

I più letti

avatar-icon

Giorgio Battisti