Africa chiama Italia
In vista della partenza del Piano Mattei, in Kenya una fondazione del nostro Paese aiuta giovani imprenditori e startupper ad accelerare la crescita di imprese e di idee. Ecco le storie di chi ce l’ha fatta.
«Karibu!». È Mercy la sorridente traghettatrice nella tricolor valley di Nairobi. Un’inaspettata enclave. Già, benvenuti. Dietro il banchetto all’entrata, si scorge l’umano brulichio. Ci sarà la consegna dei diplomi a una trentina di giovani kenyoti, addestrati a far crescere le loro aziende da E4Impact, una fondazione nata all’università Cattolica. Ma verrà inaugurata anche la nuova ala di questo centro per l’imprenditoria. «Where the kenyan innovators meet the best of italian business»: il motto campeggia ovunque. Ed è personificato da Mario Molteni: consigliere delegato della fondazione, illuminato economista nell’ateneo milanese.
Aule e uffici sono in un lussureggiante quartiere vicino al National park, quello dell’indimenticabile safari per i turisti. Sul ciglio della strada, tra la vegetazione selvaggia, sbucano intanto civilizzate scimmiette, venditori di banane, infaticabili camminatori. «Non è un progetto italiano trasferito in Africa» racconta Molteni prima della cerimonia, tra una stretta di mano e l’altra. «Ha preso forma in Kenya, collaborando con le istituzioni locali. E poi s’è diffuso in larga parte del continente». La fondazione ora ha otto sedi, ma si adopera in 20 Paesi. Negli anni recenti, ha fatto crescere almeno duemila piccole aziende.
Il primo seme viene piantato nel 2010, con un master per aspiranti imprenditori. «Allora, ci suggeriscono Nairobi, il cuore pulsante dell’Africa orientale» ricorda Molteni. «Cinque anni dopo, nasce E4Impact. E nel 2018 parte il primo acceleratore in Kenya che promuove l’imprenditorialità». Tra i soci della fondazione, adesso ci sono alcune tra le più grandi società italiane: Eni, Intesa Sanpaolo, Webuild, Mapei. Oltre alla Cattolica, ovviamente. Il nuovo rettore, Elena Beccalli, vicepresidente di E4Impact, già annuncia un complementare «Piano Africa»: «Bisogna contribuire allo sviluppo di questi Paesi. E possiamo avere risultati migliori se i saperi che coltiviamo sono ampi e integrati». L’ultima organizzazione ad aderire è stata invece Coldiretti, per insegnare il modello agroalimentare italiano.
Nairobi è sterminata. Una metropoli da sei milioni di abitanti. Negli ultimi anni, grazie ai denari prestati dai cinesi, sono state costruite strade e tangenziali. C’è lo slum di Kibera, la baraccopoli più grande dell’Africa, dove vive un terzo degli abitanti. E i grattacieli ipermoderni che cingono la zona degli affari. Lussuose Range Rover guidate da businessman superano scassati pulmini poco più grandi, con le teste che sbucano dai finestrini fameliche d’aria. A Nairobi c’è tutto. Ma anche niente. È la capitale dell’Africa subsahariana. Il Pil galoppa al cinque per cento. L’età media è sui vent’anni, con tassi di crescita demografica spaventosi. O li aiutiamo, scovando mutui vantaggi. Oppure soccombiamo, travolti dall’irrefrenabile.
L’Italia lo sa bene. Il Piano Mattei, tra finanziarie da rifinire e scaldaletti ministeriali, diventa ora la grande scommessa di Giorgia Meloni. È mutuato dagli intenti del fondatore dell’Eni: costruire ponti umani, sociali ed economici. La premier è riuscita a far diventare il programma «uno dei tre pilastri della strategia del G7 per l’Africa». Uno degli avamposti tricolore, in questa immensa città, è Aics: l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Gli uffici sono nel quartiere delle ambasciate, tra ristoranti in voga e circoli da paddle. «Il Kenya ha un grande fermento imprenditoriale. E vogliamo aiutare a sbloccare l’enorme potenziale di questo Paese, con cui il nostro governo ha sottoscritto un accordo pluriennale. I capisaldi sono tre: stabilità, crescita e prosperità» spiega Giovanni Grandi, il direttore dell’Aics di Nairobi, «ormai la capitale emergente dell’Africa per dinamismo». Anche l’agenzia finanzia la fondazione, compreso l’ultimo allargamento della sede di E4Impact: «Quando mi parlarono di un acceleratore, rimasi scettico» ricorda Grandi. «Dissi: “Li chiudiamo ovunque, perché dovrebbe funzionare qui?”. Invece, è stato un successo: l’inizio del giorno». Aics offre pure una dote alle piccole imprese più meritevoli. E ha lanciato due progetti: uno per creare moda sostenibile, l’altro per rilanciare la produzione di caffè gourmet nel Paese.
Gli stand della tricolor valley, nel frattempo, pullulano di curiosi. A marzo 2023, durante il suo viaggio istituzionale in Kenya, passò da qui pure il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Al suo fianco c’era Letizia Moratti: ex sindaco di Milano e ministro dell’Istruzione, adesso europarlamentare di Forza Italia. Pluridecorata politica e manager, è la presidente della fondazione, cha ha promosso nel 2015: «La visita di Mattarella è stata un orgoglio. Ha confermato la nostra lungimiranza. Siamo dei precursori. Il governo ora ha messo l’Africa al centro della sua politica internazionale, con un metodo che noi adottiamo da sempre. Insomma, senza averlo pianificato, ci siamo ritrovati al centro di questo grande progetto. Questa è l’università del piano Mattei, che già stiamo contribuendo a implementare».
Moratti annuncia l’ultima missione di E4Impact: «Un articolato programma per favorire una labour migration dignitosa, che farà incontrare i giovani africani con le imprese italiane alla ricerca di lavoratori qualificati. Ci dedicheremo anche alla formazione professionale e linguistica, per favorire la loro integrazione». Ma c’è già chi esemplifica l’intento. Etiba è un’altra azienda cresciuta grazie all’aiuto della fondazione. Elabora tecnologie per servizi sanitari a domicilio. Ha appena siglato un accordo con una società italiana. «E adesso stiamo formando personale che lavorerà nel vostro Paese» spiega raggiante la fondatrice Loise Ngugi, 36 anni, sbucando dal suo banchetto.
Nella sede di E4Impact, arriva anche l’ambasciatore italiano a Nairobi, Roberto Natali. È lui a tagliare il nastro davanti alle nuove aule del centro. Ed è sempre il diplomatico a spiegarci: «La metà della popolazione qui ha meno di 18 anni. Tra qualche anno, milioni di giovani entreranno nel mercato del lavoro. E se non lo trovano, che fanno? Emigrano, delinquono o muoiono di fame. Puntare sullo sviluppo, quindi, è fondamentale». L’ambasciatore aggiunge: «Il governo ha lanciato il Piano Mattei, che sottende una filosofia molto condivisibile: “Non in Kenya, ma con il Kenya”. Vogliamo individuare insieme le loro priorità. Ed è la formazione la cosa più importante. Non serve sfamare, ma insegnare a fare». Pauline Otila, per esempio. Un’elegantissima stangona 36enne, sobrio tailleur ed estroso tacco dodici. Anni fa ha avuto un finanziamento di 50 mila euro da E4Impact. Adesso la sua azienda è diventata la maggiore produttrice di miele del Paese. Nel capannone a Embakasi, nel quartiere vicino all’aeroporto di Nairobi, mostra una variegata gamma di prodotti, creme di bellezza comprese. Paulina è vulcanica: «Visto? Non ci servono soldi, ma insegnamenti. Senza la fondazione, non sarei mai arrivata qui».
È il senso del meloniano Piano Mattei. Il futuro passa dall’Africa. Il Pil è raddoppiato negli ultimi tre lustri. Ha grandi risorse naturali. Un enorme potenziale per le rinnovabili. Il governo investirà 5,5 miliardi, per avvantaggiare gli scambi con il continente. Nel 2013 c’era solo un ufficio dell’Istituto per il commercio estero. Adesso sono otto, tra cui anche Nairobi. L’ultimo censimento dettaglia: si contano oltre 1.800 imprese italiane in Africa. Energia, costruzioni, traporti, logistica, meccanica. L’inarrivabile apripista, ovviamente, è Eni. Il caso del Kenya diventa emblematico. Fino a qualche anno fa, sembrava poco interessante per gli approvvigionamenti energetici. Poi, arriva l’intuizione dell’amministratore delegato, Claudio Descalzi: più longevo al comando di Mattei e uguale approccio dell’uomo che la Bbc definì «l’italiano più famoso dopo Giulio Cesare». Dall’intesa con l’ex presidente, Uhuru Kenyatta, nasce una delle scommesse più ambiziose. Viene affidata a Enrico Tavolini, direttore generale di Eni Kenya: «Questo Paese ha un’importante tradizione agricola» ragguaglia. «Inoltre, gran parte delle aree sono aride e semi aride. Questo crea un’enorme disponibilità di terra dove poter sviluppare il nostro progetto, che non è in competizione con la filiera alimentare». Parte nel 2021: «Per produrre olio vegetale, destinato ai biocarburanti» compendia Tavolini. È la causa che il governo perora a Bruxelles. «È un investimento fondamentale per la decarbonizzazione dei trasporti aerei, marittimi e stradali. Tanto da essere stato replicato in altri Paesi africani» spiega il manager nel suo ufficio di Nairobi, nel quartiere di Gigiri, circondato dall’incontaminata foresta di Karura.
Eni collabora con oltre 80 mila agricoltori, sparsi in quindici contee. Ma, come annuncia Meloni, si puntano a coinvolgere oltre 400 mila contadini nei prossimi anni. I semi raccolti vengono poi portati nei due impianti di estrazione, a Makueni e Bonje. Infine, l’olio vegetale è trasportato in nave fino alla bioraffineria di Gela, in Sicilia. Un anno fa è stato lanciato anche il primo programma destinato all’agricoltura di Joule, la scuola di Eni per l’impresa: «Il Kenya è un Paese strategico, vivace economicamente, con un alto tasso di aziende create da giovani donne. Ha buone università e talenti da valorizzare. Sta diventando un modello per tutta l’area subsahariana» analizza Mattia Voltaggio, a capo di Joule. «La nostra filiera degli agrihubs è molto estesa. E cerchiamo di far crescere aziende che poi possono collaborare con noi». Come Proteen, che trasforma i rifiuti in fertilizzanti. O FarmIT, che aumenta la resa dei raccolti con l’intelligenza artificiale. «L’iniziativa viene replicata anche quest’anno, sempre con E4Impact» aggiunge Voltaggio. «Abbiamo lanciato un programma per potenziare l’ecosistema e rafforzare la filiera. Sono arrivate oltre duecento domande. Alla fine, abbiamo selezionato le dieci migliori idee». Tra cui Agriflex: supporta i produttori vendendo semi a prezzi accessibili attraverso rivenditori locali. E Mukurweini oil: aiuta gli agricoltori con tecnologie innovative.
Intanto, l’infaticabile Molteni continua a solcare le trafficatissime strade di Nairobi. Si può stare fermi a un incrocio anche mezz’ora. Nel giorno dei festeggiamenti per i nuovi diplomati e l’inaugurazione delle nuove aule, riceve una telefonata. È in arrivo una delegazione del governo ugandese. Vuole visitare alcune imprese che riciclano rifiuti aiutate dalla fondazione. Il giorno dopo, il professore si scapicolla. Li accompagna nel capannone di Pura terra recycling, nata da una joint venture con la bresciana Montello. O Bottle logistic, diventata leader nel recupero del vetro sotto la guida dalla 34enne Louisa Gathecha. Già, un’altra giovane imprenditrice. Perché qui il lavoro tocca inventarselo. Come hanno fatto perfino le Holy sisters, suore missionarie che hanno trasformato il loro spartano caseggiato in una «boutique guest house» per turisti, accademici, studenti e religiosi. Anche il morigerato Molteni alloggia qui, durante i lunghi periodi passati a Nairobi. La fondazione dista qualche minuto d’auto. Il professore esce all’alba e torna all’imbrunire. Giusto in tempo per la minestrina calda, servita dalla spumeggiante suor Pauline: «Ogni sera diversa, ma sempre strepitosa». Holy sister’s soup. Prelibatissima. Quasi quasi, si potrebbe lanciare un’altra startup. n