Nel Canada «arrabbiato» l'Italia è favorita
Le minacce (e le dilazioni) di dazi fatte da Donald Trump spingono il Paese a diversificare le importazioni. Ecco che si aprono spazi per le imprese tricolori
«Strong and free». Un Canada forte e libero. Sono le parole che campeggiavano sulla prima pagina del quotidiano Globe and Mail il 5 marzo scorso, il giorno dopo l’inizio della guerra economica tra Washington e Ottawa. Un tira-e-molla di annunci e smentirt sui dazi, fino all’entrata in vigore della «tassa» americana del 25 per cento su alluminio e acciaio.
Wall Street non ha gradito, con l’indice Standard & Poor’s 500 che ha innestato la retromarcia rispetto agli entusiasmi seguiti all’incoronazione di The Donald. I canadesi non si fanno illusioni. L’ex premier Justin Trudeau, però, è stato chiaro: con i suoi dazi, il presidente Usa vuole portare il Paese al collasso economico per annetterlo come 51° Stato dell’Unione. Dopo la pugnalata alle spalle ricevuta dalla nazione storicamente più amica, ora vince la rabbia. Racchiusa in un’espressione molto canadese: «Elbows up and gloves off». Ovvero, su i gomiti e via i guantoni. Il gesto che nell’hockey su ghiaccio significa che è ora di combattere. Al momento, solo con il portafoglio, boicottando il made in Usa. Il risultato è un vuoto commerciale che attira l’Italia, anche sotto la spinta del trattato Ceta con la Ue: nei cinque anni dalla sua entrata in vigore, nel 2017, l’export verso il Canada è cresciuto del 40 per cento.
L’ambasciatore italiano a Ottawa Alessandro Cattaneo, da diplomatico di carriera, misura le parole. «L’ha detto bene il vice presidente Antonio Tajani: la guerra dei dazi non conviene a nessuno. Con la sua vocazione all’export, l’Italia sa che il commercio internazionale crea prosperità diffusa e per questo sta lavorando, ricomponendo le tensioni esistenti. Detto ciò, il Canada punta da tempo a diversificare la sua economia. L’Europa è un interlocutore privilegiato, con l’Italia in primo piano: nel 2024, dopo la Germania, è stata il secondo partner commerciale del Paese, con un export di 12,3 miliardi di dollari canadesi, circa otto miliardi di euro, e un interscambio di 15,5 miliardi, pari a quasi dieci. Italia e Canada sono orientati a collaborare per la complementarietà delle loro economie». Quali opportunità si aprono? «Ce ne sono in tutti i settori. In quelli tradizionali e in quelli ad alto contenuto tecnologico. La “roadmap” per una cooperazione rafforzata, firmata l’anno scorso dal presidente Meloni e dal premier Trudeau, dà risalto a energia, aerospazio, intelligenza artificiale e materie prime critiche».
Sullo sfondo delle probabili elezioni federali, con il duello tra il liberale Mark Carney, neo primo ministro, e il conservatore Pierre Poilievre, ecco quindi che le nostre imprese hanno buone carte da giocare. In Canada servono nuove pipeline per vendere l’energia in Europa e in Asia, e aziende quali Tenaris, Saipem, Bonatti, Eni, Snam e Fincantieri - operano qui da anni. Enel Green Power e il gruppo AB possono aiutare un Paese che punta alla neutralità carbonica entro il 2050, ma che inquina tanto per estrarre il petrolio. Leonardo può mettere a frutto la riduzione dell’import di tecnologie americane, fornendo elicotteri, droni e componenti per la difesa, mentre Sacmi, Danieli, Brembo e Comau sono un’alternativa ai fornitori americani nell’automotive e nel packaging. Traducendo anche in numeri, l’export automobilistico da 345 milioni di euro ha come gioielli Ferrari, Lamborghini e Maserati, mentre Gucci, Prada, Versace, Moncler e Armani tengono alta la bandiera del lusso in una realtà che al 95 per cento veste casual. Nel 2023, Natuzzi, Tomasella e Calligaris, ma anche Alessi, Smeg e Flos, tra gli altri, hanno portato il design italiano nelle case dei canadesi per 150 milioni di euro, mentre nell’export farmaceutico - da 580 milioni nel 2024 - c’è spazio per Menarini, Chiesi, Bracco e Recordati.
Dulcis in fundo, l’agroalimentare: l’Italia è il terzo esportatore dopo Usa e Messico. Per rafforzare il suo status di superpotenza agricola, il Canada può contare su produttori italiani di macchinari, da New Holland, di proprietà di Exor, a Maschio Gaspardo, Carraro e Celli, aziende meno note al grande pubblico. Con il boicottaggio in atto, potrebbe crescere anche il fatturato di Barilla, Ferrero, Lavazza e dei consorzi del Parmigiano Reggiano o del Prosciutto di Parma. Il vino, da solo, vale 420 milioni di euro, ma le «gabelle» sulle etichette californiane favoriscono potenzialmente marchi quali Antinori, Zonin e Frescobaldi. Nonostante le distanze, anche frutta e ortaggi italiani trovano posto sulle tavole canadesi. Ne è convinto Dom Rampone, che discende da una famiglia piemontese arrivata negli anni Trenta nella Okanagan Valley, zona vinicola della British Columbia. Esporta ciliegie a Taiwan grazie ad apparecchiature che replicano temperatura, illuminazione e umidità del frutto sull’albero e, parallelamente, sviluppa business per la Camera italiana del Commercio del Canada occidentale. Ora lavora a un altro progetto: aiutare un coltivatore di radicchio trevigiano a esportare il suo prodotto in questa remota provincia affacciata sul Pacifico. Se ci riesce, le agenzie che promuovono le imprese italiane dovranno fare gli straordinari.