Cina, Russia e Stati Uniti: il grande stallo sulla guerra ucraina
A Nuova Delhi nessuna novità sul fronte della pace. Pechino copre le spalle a Putin e l'incontro lampo tra Blinken e Lavrov non produce alcun risultato
Nuova Delhi, vecchi siparietti. L’incontro in India a margine del G20 tra il Segretario di Stato Usa Anthony Blinken e il suo omologo agli Esteri Sergei Lavrov non ha prodotto altro che un accordo per un nuovo scambio di prigionieri. Il che la dice lunga sul futuro della guerra in Ucraina, il cui prosieguo era e resta scontato da entrambe le Amministrazioni. Con il messaggero di Washington che ribadisce «non ci stancheremo di sostenere Kiev per tutto il temo necessario», e la vestale di Putin che non replica altro che «non ci sono negoziati in corso». Forse, il Cremlino al momento è interessato più al volgere in suo favore della battaglia di Bakhmut, che risolleva almeno un poco il morale delle truppe di Mosca (che non vedevano alcun progresso militare da molti mesi).
Insomma, il G20 indiano da un lato cristallizza la situazione sul campo che già conoscevamo, dall’altro descrive fin troppo bene la danza di nuove (e vecchie) alleanze che si vanno saldando nel panorama internazionale.
Soprattutto, certifica il fatto che l’India è divenuta il centro dei giochi geopolitici odierni: è così anche da quando il premier Narendra Modi ha iniziato a guardare con sempre maggior favore verso Occidente in aperta contrapposizione con la Cina, cui ambisce a sostituirsi nel ruolo di sponda economica per l’America e l’Europa. Tutti gli indicatori economici, del resto, sembrano darle ragione: l’ago della bilancia propende da tempo per il sub-continente indiano, che ambisce ormai a scalzare Pechino dal piedistallo del Paese non occidentale più strategico per il mondo capitalistico.
Gli analisti descrivono già da tempo l’India come un «punto luminoso» dell’assetto economico-finanziario globale, anche in ragione dell’apparentemente solida base su cui poggiano i fondamentali della crescita indiana: con una previsione del 6,7% nel 2023, un tasso molto elevato rispetto ad altri paesi membri del G20, e un potenziale di crescita del 10% all’anno per un lungo periodo (il mese di febbraio, per dire, ha registrato un + 9,2%). Senza contare l’innalzamento della popolazione, che nel giro di pochi anni vedrà l’India superare la Cina nel ruolo di nazione più popolosa al mondo.
Tutto ciò ha conseguenze dirette anche per il Partito comunista cinese, alle prese con una serie di riflessioni che lo costringono a schierarsi sempre più al fianco della Russia, nel doppio ruolo di alleato e protettore sul lato diplomatico-militare, e di partner economico-strategico dall’altro. Si vedano in proposito le discusse forniture di armi (smentite da Pechino, ma fino a un certo punto) e i recenti voti al consiglio di sicurezza dell’Onu (con la sapiente ponderazione cinese di un voto oggi contrario e di un’astensione domani, a seconda delle necessità).
L’ultimo esempio di quanto detto è proprio il G20 indiano, dove la Cina si è unita alla Russia nel rifiuto di firmare la dichiarazione dei ministri degli Esteri, che chiedeva a Mosca di cessare le ostilità in Ucraina. I due Paesi sono stati gli unici membri del G20 a non approvare la dichiarazione a favore del «ritiro completo e incondizionato della Russia dal territorio dell'Ucraina». Una posizione che, c’è da scommetterci, li vedrà fianco a fianco anche in futuro, nonostante le paventate operazioni cinesi verso la pace (il famoso «documento in 12 punti» consegnato a Kiev per un cessate il fuoco non è un vero passo in avanti).
Se la guerra in Ucraina ha certamente inasprito la rivalità tra le grandi potenze, ormai la competizione ha assunto la forma di un confronto a tutto campo tra due schieramenti ben definiti: il campo occidentale guidato dagli Stati Uniti da un lato, e dall’altro quello anti-americano promosso dalla Repubblica Popolare Cinese, di cui la Federazione Russa è inevitabilmente parte. Ma proprio da qui discendono alcune certezze.
La prima è che Pechino e Mosca non possono fare a meno l’una dell’altra. La seconda è che la guerra ha accelerato per i cinesi la necessità di riposizionarsi a Est nello scacchiere internazionale; Pechino non teme affatto l’isolamento internazionale, piuttosto è preoccupata della competizione agguerrita dell’India, che sembra ricambiare l’abbraccio di Washington (quantomeno da punto di vista economico).
Venendo appunto all’economia, si trovano però i primi segnali di frizione tra gli «alleati per forza»: ed è proprio su questo aspetto che Vladimir Putin ha più da temere Xi Jinping. Il conflitto scatenato dal presidente russo in Europa, infatti, ha avuto come prima conseguenza per Pechino l’aver minato lo sviluppo dei corridoi infrastrutturali terrestri della Belt and Road Initiative (la nuova «Via della Seta» su cui Xi Jinping puntava per consolidare il suo ruolo di superpotenza).
L’aver danneggiato il soft power della Repubblica Popolare ha costretto Pechino da un lato ad accelerare indirettamente la collaborazione militare tra Russia e Cina, ma dall’altro ha allarmato non poco il governo comunista, che si vede ora costretto a favorire Mosca per poi – e qui sta la scommessa – cannibalizzare quel che resterà della Federazione Russa nel dopoguerra.
D’altronde, appena due settimane prima che Putin tentasse la sortita militare su Kiev, la Cina aveva giurato «amicizia senza limiti» alla Russia; una cosa che Xi Jinping non poteva né può più smentire o rimangiarsi, nonostante il disastro ucraino. Ma proprio questo favorirà in futuro la pretesa di risarcimento da parte dei cinesi contro le intemperanze del presidente russo, per adesso tollerate. Che ne fosse o meno a conoscenza, infatti, è certo che Pechino non desiderava una guerra proprio laddove si andava definendo un futuro logistico proficuo (appunto, la Via della Seta), con l’idea di creare un cordone ombelicale tra il continente asiatico e quello europeo.
Tutto questo è abortito. Così adesso la Repubblica Popolare studia come trarre ogni possibile beneficio dalla situazione in atto. Il che non è affatto semplice, considerato che l’unico asset di rilievo russo sono e restano gli idrocarburi. Dopo un anno, gli effetti del conflitto cominciano a pesare davvero sull’economia di Mosca e il commercio bilaterale sino-russo – che ha raggiunto i 190 miliardi di dollari ed è cresciuto di un +34% rispetto al 2021 – è ormai sbilanciato in favore di Pechino.
Rispetto ai numeri complessivi dei commerci che la Cina mantiene con il resto del mondo, il peso della Russia resta però assai esiguo e, se da un lato questo pone Pechino in una posizione di netto vantaggio negoziale (al punto che Mosca potrebbe persino diventare un satellite del colosso cinese), dall’altro il dominus asiatico in conseguenza delle mire imperialiste di Vladimir Putin ha perso una fetta di mercato che riteneva cruciale, quasi esistenziale, per il proprio benessere.
Da qui la domanda che i governi di Cina e Russia si fanno in queste ore circa la guerra di Putin: ne valeva la pena?
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