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(Ansa)
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Xi Jinping, l'eterno, in una Cina con qualche ombra di troppo

Nei giorni del Congresso del Partito Comunista Cinese il leader si porta a casa il terzo mandato; un record in un paese dove però i problemi diventano sempre più grandi

Un decennale con molte luci e qualche ombra crescente. Ecco un primo bilancio della Cina sotto la guida di Xi Jinping, che si è presentato quest’oggi al XX Congresso del Partito comunista cinese per ottenere un terzo mandato come segretario generale. Fatto che, in maniera inconsueta e rompendo la tradizione, gli garantisce uno storico risultato in qualità di presidente e capo del partito comunista più longevo dopo Mao Zedong.

Xi attualmente ricopre le tre posizioni più importanti in Cina: segretario generale del Partito, capo delle forze armate del Paese e presidente. Dovrebbe rinnovare il suo mandato per i primi due titoli al congresso, anche se nessun leader oltre a Mao - il fondatore della Cina comunista - ha mai osato un terzo mandato.

Quanto alla presidenza, anch’essa aveva un limite di due mandati, secondo la costituzione normata dal riformatore Deng Xiaoping, che intendeva impedire volutamente l’ascesa di una nuova figura maoista in Cina. Ma Xi Jinping è riuscito a eliminare questo requisito nel 2018, quando ha fatto votare al parlamento cinese l’abolizione di tale norma, spalancando le porte per una presidenza che potrebbe anche essere a vita.

Oltre a ciò, la Cina attraversa uno dei momenti più difficili della sua storia recente, e Xi deve stare attento a come conserverà il potere e a cosa scriveranno di lui sui libri di storia. Dopo due lustri di crescita economica ed espansione geopolitica, infatti, Pechino ha conosciuto una significativa battuta d’arresto generalizzata, proprio nell’anno della riconferma del leader. Tuttavia, nel suo discorso di fronte ai 2.300 delegati al congresso, Xi Jinping ha minimizzato, rivendicando invece i grandi successi che il Paese ha conseguito sotto la sua guida.

A cominciare da Hong Kong, dove il governo ha vinto una delle sue più importanti battaglie, portando la città-Stato definitivamente tra le braccia della legge cinese, senza più deroghe o autonomie. Per dirla con il presidente, è stata portata dal «caos alla governance». Dopo le violente e prolungate manifestazioni a favore della democrazia protrattesi fino al 2019, infatti, Pechino ha imposto qui una legge sulla sicurezza nazionale, e usato il pugno duro sugli studenti universitari affinché demordessero e placassero le loro rivendicazioni da «giovani ribelli». Il pugno di ferro ha funzionato, e così oggi Hong Kong è uno dei trofei che il presidente può sbandierare come suo proprio.

La questione di Taiwan

Non così con l’isola di Taiwan, dove la temperatura si fa bollente, allorché la Repubblica di Taipei - ostile e antitetica al governo di Pechino - è convinta di poter resistere a oltranza contro le ingerenze della Cina continentale, che invece pretende di averla di nuovo sotto il suo controllo, com’era prima della rivoluzione comunista e della Lunga marcia.

A Taipei, sede non riconosciuta da alcun Paese al mondo, sono convinti che sbandierare un sistema democratico permetterà loro di sopravvivere come entità statuale, nonostante l’accerchiamento e le pretese di Pechino; e magari avverrà con l’aiuto militare degli Stati Uniti. Xi Jinping, invece, si è intestardito nel voler recuperare quell’arcipelago indipendente e lo ha persino fatto scrivere nero su bianco: entro il 2025 Taiwan deve tornare a far parte della madrepatria comunista.

Parlando con nettezza anche al congresso, il presidente ha affermato che Pechino «non prometterà mai di rinunciare all’uso della forza», come invece vorrebbe qualcuno in Occidente. Costi quel che costi, «la riunificazione completa del nostro Paese deve e sarà realizzata» ha ribadito, suscitando applausi scroscianti da parte dei delegati. «Le ruote della storia stanno girando verso la riunificazione della Cina e il ringiovanimento della nazione cinese. La riunificazione completa del nostro Paese deve essere realizzata» è il monito del leader, che sottende sia l’urgenza di risolvere la questione sia, con ogni probabilità, il fatto che il dossier sarà in cima agli impegni geopolitici da risolvere entro il quinquennio del suo terzo mandato.

E, in effetti, nel discorso di Xi la parola «sicurezza» è stata da lui menzionata oltre 70 volte. «La sicurezza nazionale è la fondazione del ringiovanimento della nazione cinese» e per questo il governo intende rafforzare tale sicurezza in campo militare, economico e in «tutti gli aspetti» sia in patria che all'estero.

Ma l’ottimismo e le certezze cinesi si arrestano qui. Quando poi il presidente ha introdotto altri argomenti, se possibile ancor più spinosi, i volti si sono fatti più tesi: descrivendo gli ultimi cinque anni come «altamente insoliti e straordinari», Xi ha ammesso ad esempio di aver guidato la Cina attraverso «una situazione internazionale cupa e complessa», dove «rischi e sfide enormi si sono presentati uno dopo l’altro». Su tutti, la pandemia, probabilmente il più controverso degli affari correnti del governo di Pechino.

La difficile politica dello «zero Covid»

Il presidente cinese ha riaffermato che non ci sarà un allentamento immediato rispetto alla sua controversa strategia «zero-Covid», la cui inflessibilità è un marchio di fabbrica della politica rigorista che Xi intende mantenere. Nonostante questo gli abbia alienato le simpatie della popolazione, che è tornata a rialzare a testa e a manifestare in maniera anche violenta, come non si vedeva da decenni. Ma Xi deve pensare ai voti dei delegati del congresso, e poco si cura di cosa pensa il popolo.

Lui, che si considera una guida illuminata, ritiene di aver condotto contro il Covid una «guerra popolare per fermare la diffusione del virus» e, pur consapevole che questa politica ha costretto i cinesi a versare un tributo punitivo e l’economia a conoscere una battuta d’arresto, tali sforzi hanno salvato vite. «Che è la cosa più importante». Resta, in ogni caso, un crescente affaticamento della popolazione per i ripetuti lockdown e le restrizioni di viaggio, che non sembrano favorire l’uscita della Cina dall’emergenza sanitaria.

I contagi – 333.830 nuovi casi questa settimana, in crescita del 10% – sembrano ormai da tempo pienamente sotto controllo e comunque ampiamente gestibili. Ciò nonostante, la stessa Pechino patisce in questi giorni rigide misure di sicurezza e, appena prima del congresso, la politica «zero-Covid» ha conosciuto un’ulteriore inasprimento per appena 12 contagi registrati in città, con conseguenti proteste spontanee dei cittadini, esplose in particolare nella giornata di giovedì.

La sfida economica

Infine, pesano sul futuro economico della Cina la grave bolla immobiliare e l’affermazione della Belt and Road Initiative, la strategia per l’espansione economica della Cina e conseguente penetrazione in Africa ed Europa.

Quanto al primo, Standard&Poors ha previsto che le «vendite di proprietà nazionali scenderanno entro quest’anno del 28%-33%», segnando un calo doppio rispetto alla stima che la stessa società di rating aveva rilasciato a inizio anno. «Segno inequivocabile che il crollo del mercato sta bruscamente prendendo velocità» dicono gli analisti. Che succede? Pare che i costruttori cinesi non abbiano più liquidità per completare i progetti immobiliari già pagati dai cittadini attraverso l’accensione di mutui privati, e che conseguentemente i clienti fuggano precipitando società e progetti verso il fallimento: crolla l’immissione di liquidità nel sistema, i costruttori non possono onorare nei tempi i contratti con gli acquirenti, e le imprese costruttrici saltano.

A questo scenario da incubo, Pechino ha risposto per adesso con maxi piano di salvataggio da 300 miliardi di yuan (circa 44 miliardi di dollari), per i grandi gruppi immobiliari. Ma i risultati ancora non si vedono e i crolli in borsa continuano.

Quanto alla Belt and Road Initiative, che ha portato a significativi risultati nella prima fase, si teme il mancato aggancio della seconda: ovvero finalizzare il corridoio commerciale che dovrà portare merci e beni di ogni sorta dai grandi poli industriali cinesi agli interporti occidentali: la guerra in Ucraina e l’isolamento sino-russo sono un’incognita notevole al completamento del progetto multimiliardario.

La via cinese al futuro

Nelle indicazioni generali per i prossimi cinque anni, Xi ha indicato la sua via affermando che la Cina si concentrerà soprattutto su «istruzione di alta qualità» e innovazione per «rinnovare la crescita economica» dopo che il Paese è stato colpito dalla crisi. Come a dire, che questa generazione ancora patirà per la battuta d’arresto della tigre asiatica, ma la prossima vedrà i frutti di questi sforzi grazie alla pianificazione quinquennale sotto la guida ancora una volta di Xi Jinping.

Intanto, però, il Pil cinese è atteso a + 2,8% a fine anno, rispetto all’8,1% del 2021 e al 4-5% stimato in aprile, secondo la Banca Mondiale. Una frenata grave, cui Pechino intende ripondere «accelerando gli sforzi per ottenere una maggiore fiducia in se stessa nella scienza e nella tecnologia», secondo quanto affermato dal presidente, ormai consapevole che la politica di repressione del settore privato e delle principali società tecnologiche del Paese non gli hanno portato fortuna.

Dunque, al XX congresso è in corso una discussione - senza antagonisti - sulla fiducia al leader, che durerà a porte chiuse fino a sabato prossimo, quando una votazione cerimoniale per convalidare il rapporto di Xi Jinping sullo stato della nazione e per approvare le modifiche apportate alla costituzione del partito (per rafforzare ulteriormente il suo potere), incoronerà il terzo atto di un leader capace e determinato. Su di lui pesano, però, le scelte compiute nell’ultimo bienno. Perciò Xi non deve steccare sul rilancio economico né incaponirsi con Taiwan, pena il vanificare gli sforzi enormi fatti dal sistema e dalla collettività cinese per diventare una superpotenza.

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Luciano Tirinnanzi