I colloqui che avrebbero potuto porre fine alla guerra in Ucraina
I tentativi segreti falliti nel 2022 di porre fine alla guerra in Ucraina, ostacolati da pressioni esterne e incertezze territoriali, lasciano tuttavia aperta la possibilità di nuovi dialoghi per una pace negoziata
Samuel Charap e Sergey Radchenko l’hanno chiamata «una storia nascosta di diplomazia che non ha avuto successo, ma che contiene insegnamenti per i negoziati futuri». Si tratta dei colloqui avvenuti nel 2022 tra Russia e Ucraina – rimasti finora segreti nel contenuto – che avrebbero potuto porre fine alla guerra già dopo poche settimane. Perché sono falliti? E, soprattutto, quanto c’è di vero?
Ricostruiamo i fatti, partendo dalle rivelazioni ex post di Foreign Policy. Nel mese di marzo 2022 si tengono, come noto, una serie di intensi incontri dal vivo tra rappresentanti di Kiev e di Mosca, prima in Bielorussia e poi in Turchia. Da questi colloqui emerge il cosiddetto «Comunicato di Istanbul», una base agli occhi del mondo vaga ma giudicata sufficientemente «solida» dai protagonisti, perché le due parti in conflitto possano iniziare a lavorare sul testo di un trattato «definitivo» per la cessazione delle ostilità e la spartizione dei territori contesi. Quanto sono davvero vicine le parti a porre fine alla guerra all’epoca? E perché quell’accordo è invece sfumato?
Charap e Radchenko hanno ricostruito gli eventi intervistando diversi funzionari che hanno partecipato ai colloqui ed esaminando numerose interviste e dichiarazioni di ucraini e russi presenti all’epoca dei colloqui. «Quello che abbiamo scoperto è sorprendente, e potrebbe avere implicazioni significative per i futuri sforzi diplomatici per porre fine alla guerra» hanno dichiarato i giornalisti. Secondo le loro fonti, infatti, persino il presidente russo Vladimir Putin avrebbe confermato la volontà di patteggiare una pace: «Già all’epoca c’era un accordo reale sul tavolo che avrebbe posto fine alla guerra, ma che gli ucraini hanno abbandonato a causa di una combinazione di pressioni da parte dei loro partner occidentali e della convinzione da loro condivisa con Kiev circa la debolezza militare russa» è l’opinione russa.
Di certo c’è che i colloqui tra Kiev e Mosca iniziano il 28 febbraio in una delle residenze di campagna di Lukashenko vicino al villaggio di Liaskavichy, non lontano dal confine bielorusso-ucraino. «La delegazione ucraina era guidata da Davyd Arakhamia, leader parlamentare del partito politico di Zelensky, e comprendeva il ministro della Difesa Oleksii Reznikov, il consigliere presidenziale Mykhailo Podolyak e altri alti funzionari. La delegazione russa era guidata da Vladimir Medinsky, consigliere senior del presidente russo che in precedenza era stato ministro della Cultura. La delegazione comprendeva anche i viceministri della Difesa e degli Affari esteri».
Al primo incontro, secondo i testimoni i russi presentano «condizioni inaccettabili», chiedendo di fatto la capitolazione dell’Ucraina. Il 3 e il 7 marzo seguenti, le parti tengono un secondo e un terzo round di colloqui, stavolta a Kamyanyuki, in Bielorussia, appena oltre il confine con la Polonia. Il 3 marzo la delegazione ucraina presenta le proprie richieste: «Un cessate il fuoco immediato e la creazione di corridoi umanitari che permettano ai civili di lasciare in sicurezza la zona di guerra». Mentre il 7 marzo, russi e ucraini esaminano per la prima volta le bozze preliminari. Medinsky ha confermato che si trattava di bozze russe che rivelavano «l’insistenza di Mosca sullo status di neutralità dell'Ucraina».
Dopodiché gli incontri di persona si interrompono, e restano aperti canali informali e qualche discussione ufficiosa via Zoom. È a questo punto, pare, che gli ucraini iniziano a concentrarsi sulla questione che sarebbe diventata centrale per porre fine alla guerra: la garanzia di un obbligo da parte dell’Occidente, ovvero la NATO, a difendere l’Ucraina se la Russia avesse attaccato di nuovo in futuro. È ciò che viene discusso il 10 marzo ad Antalya, in Turchia, dove il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba incontra il suo omologo russo, Sergey Lavrov, rivelandogli che a Kiev sono «pronti a discutere seriamente di pace», perché convinti di poter ottenere le garanzie di cui sopra tanto dagli Stati membri della NATO quanto dalla Russia.
I partner occidentali di Kiev, Regno Unito in particolare, però si mostrano subito riluttanti a farsi coinvolgere in un qualsiasi negoziato con Mosca, convinti che questi ultimi stiano semplicemente bluffando. Oltretutto sono indispettiti all’idea che l’Ucraina conduca da sola i giochi, dato che non avrebbe certo potuto negoziare per conto di Londra e Washington un accordo che coinvolgeva l’Occidente nel garantire la sicurezza dell'Ucraina.
Ciò nonostante, il 29 marzo – questa volta a Istanbul – si tengono nuovi incontri, dove le parti in guerra annunciano di aver concordato un comunicato congiunto, però mai divulgato alla stampa. «Abbiamo ottenuto una copia del testo completo della bozza di comunicato, intitolato “Disposizioni chiave del trattato sulle garanzie di sicurezza dell’Ucraina”» riferiscono oggi gli autori dell’inchiesta per Foreign Policy. «Secondo i testimoni che abbiamo intervistato, gli ucraini hanno ampiamente redatto il comunicato e i russi hanno provvisoriamente accettato l'idea di utilizzarlo come quadro per un trattato».
Tale accordo includeva anche la questione della Crimea, la cui decisione sarebbe stata rimandata a nuovi negoziati «da concludersi entro 15 anni». Una concessione enorme da parte di Kiev, e un terreno comune che davvero poteva essere base di partenza. Tuttavia, l’accordo era troppo vago e indeterminato, perché evitava aspetti essenziali, come le modalità precise per la creazione di corridoi umanitari, del cessate il fuoco e del ritiro delle truppe russe. Stando alle fonti, anzi, quello discusso da Kiev e Mosca era piuttosto un piano di pace geopolitico, che guardava al lungo termine e glissava sull’attualità. «Uno sforzo ammirevolmente ambizioso, ma che alla conta dei fatti si è rivelato troppo ambizioso» lo hanno liquidato in Occidente. «Russia e Ucraina hanno puntato troppo in alto, troppo presto» è la sentenza di Londra.
Lo scetticismo di Washington ha fatto il resto. Anche perché gli ucraini si sarebbero consultati con gli americani «solo dopo la pubblicazione del comunicato, anche se il trattato in esso descritto avrebbe creato nuovi impegni legali per gli Stati Uniti», tra cui l’obbligo di entrare in guerra contro la Russia se questa avesse invaso nuovamente l’Ucraina. Già questa sola clausola era inconcepibile per la Casa Bianca, senza un suo assenso preventivo. Inoltre, il comunicato emerso da Istanbul eludeva la questione principale, ovvero quella del territorio e dei confini. Ecco perché «non sembrava un negoziato destinato al successo» secondo l’Amministrazione Biden, convinta che fosse più logico incrementare gli aiuti militari a Kiev e aumentare contemporaneamente la pressione sulla Russia, attraverso un regime di sanzioni sempre più rigido. Linea che poi, come noto, alla fine ha prevalso.
Ma, secondo le ricostruzioni di Foreign Policy, è stato il Regno Unito a far fallire definitivamente le trattative. Già il 30 marzo, infatti, l’allora premier Boris Johnson afferma: «Dovremmo continuare a intensificare le sanzioni con un programma a rotazione finché ogni singola truppa [russa, ndr] non sarà fuori dall’Ucraina». Il 9 aprile seguente lo stesso Johnson si palesa a Kiev, primo leader straniero a visitarla dopo il ritiro russo dalla capitale. Secondo quanto riferito dalle fonti, avrebbe detto a Zelensky che «qualsiasi accordo sarebbe una vittoria per lui: se gli dai qualcosa, se lo terrà, lo metterà in banca e poi si preparerà per il prossimo assalto». Nelle parole di David Arakhamia, deputato ucraino vicino al presidente, «Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non avremmo dovuto firmare nulla coni russi, ma continuare a combattere».
Johnson trova terreno fertile tra i decision maker e presso l’opinione pubblica ucraina, soprattutto dopo la scoperta delle atrocità compiute dai russi a Irpin e Bucha. Quando poi il l’accerchiamento delle truppe russe di Kiev fallisce, il Presidente Zelensky si fa progressivamente più fiducioso e inizia a pensare – forse per la prima volta – di poter persino vincere la guerra sul campo di battaglia.
Ma perché i colloqui si interrompono del tutto? In ogni guerra, le trattative vanno avanti nonostante le ostilità. Invece, in questo caso si è ceduto all’istinto marziale e nel 2023, ma soprattutto nel 2024, si è smesso del tutto di cercare un punto di contatto (fatto salvo il nobile quanto vano tentativo del Vaticano, che ha inviato a Oriente il capo della Cei, Matteo Maria Zuppi).
Vladimir Putin in persona ha sostenuto che le potenze occidentali «sono intervenute e hanno fatto saltare l’accordo perché più interessate a indebolire la Russia che a porre fine alla guerra». E ha puntato a sua volta il dito contro Boris Johnson, certo del fatto che BoJo abbia «trasmesso agli ucraini il messaggio, a nome del mondo anglosassone, che essi dovevano combattere la Russia fino a quando non sarà raggiunta la vittoria e la Russia subirà una sconfitta strategica».
Quanto ci sia di vero nelle parole di Putin è difficile dirlo, ma le fonti dell’una e dell’altra parte convergono almeno su un aspetto: sia Putin sia Zelensky nel 2022 erano ancora disposti a considerare compromessi straordinari pur di porre fine alla guerra. «Putin e Zelensky hanno sorpreso tutti con la loro reciproca disponibilità a considerare concessioni di ampio respiro per porre fine alla guerra» affermano le fonti interpellate da Samuel Charap e Sergey Radchenko.
Quando poi il Segretario di Stato Antony Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin fanno tappa a Kiev per coordinare un maggiore sostegno militare (erano passate appena due settimane dal viaggio in Ucraina di Johnson), è già chiaro che l’Occidente non si piegherà ad alcun compromesso con l’invasore russo. «La strategia che abbiamo messo in atto - un sostegno massiccio all'Ucraina, una pressione massiccia contro la Russia, la solidarietà con più di 30 Paesi impegnati in questi sforzi - sta avendo risultati concreti» hanno affermato all’epoca i dioscuri dell’Amministrazione Usa.
Del resto, dopo che Mosca fallisce clamorosamente nella presa di Kiev per rovesciare il governo ucraino (possibilmente uccidendo o catturando lo stesso Zelensky nel processo), per Washington è facile puntare sulla resistenza a oltranza contro i russi. Soprattutto considerato che, come ricordato dai giornalisti di Foreign Policy, «pochi giorni dopo l'inizio dell’invasione, Mosca inizia a sondare il terreno per trovare un compromesso. Una guerra che Putin si aspettava fosse una passeggiata si stava già rivelando tutt'altro, e questa precoce apertura al dialogo suggerisce che sembrava aver già abbandonato l’idea di un vero e proprio cambio di regime».
Il resto è storia. Due anni e più di sanguinosi combattimenti non hanno prodotto che morte e distruzione, riducendo al lumicino le speranze di una pace negoziata. Anche se la speranza, si sa, è l’ultima a morire: ancora oggi i più ottimisti ritengono che, proprio per il fatto che siamo nelle stesse identiche condizioni di quanto tutto è iniziato, i margini per riallacciare un dialogo siano più concreti oggi che nel 2022. «Quando le prospettive di negoziazione appaiono scarse e le relazioni tra le parti sono quasi inesistenti, ecco che ricordare i colloqui della primavera del 2022 può offrire nuovi spunti da applicare alle circostanze attuali» scrivono Samuel Charap e Sergey Radchenko.
Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky possono davvero sorprendere di nuovo tutti in futuro cedendo alle colombe della pace? Chi lo pensa, crede anche nella bontà degli uomini e nell’importanza della vita. Cosa che, purtroppo, non sembra emergere in alcun modo dalle terre desolate del Donbass.