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(Ansa)
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La ricetta della nuova Cina: «comprate auto e lavatrici»

Il congresso del popolo si conclude con un invito all'acquisto che dice molto delle difficoltà economiche del dragone

Il Congresso nazionale del popolo è l’evento pubblico più importante della complessa architettura politica della Cina: rappresenta il momento in cui l’organo legislativo unicamerale – in teoria l’organo supremo del potere statale – esprime un giudizio e vota sull’operato del governo centrale. Ma non per questo è un istituto libero di esprimersi, perché comunque assoggettato al controllo tentacolare del Partito comunista cinese, di cui il leader Xi Jinping è uno scrupoloso censore.

Forse anche per questo, quest’anno la tre giorni congressuale ha rotto una consuetudine iniziata da Li Peng nel 1991: la conferenza stampa alla fine dei lavori dell’assemblea non c’è stata. Il motivo? Non oscurare il ruolo centrale del presidente Xi, non creare possibili momenti d’imbarazzo sui dati di un’economia in evidente crisi. Ma soprattutto non dover giustificare l’annuncio più importante: e cioè che la Cina, a dispetto della crisi stessa, «quest’anno crescerà del 5% del Pil». Cosa della quale gli economisti, a cominciare dagli stessi cinesi, dubitano fortemente. Tanto è vero che i lavori del Congresso e le relative comunicazioni sono stati prudentemente suddivisi in due ambiti distinti: il capitolo dell’economia e quello della politica internazionale.

La strategia economica cinese 2024

Anche se Pechino afferma che l’anno scorso l’economia è cresciuta del 5,2%, un livello comunque basso per la Cina (abituata a crescite anche a due cifre), molti analisti sostengono che la stima reale dell’incremento del prodotto lordo nazionale sia stato meno di un terzo di quel valore. «L’idea di una crescita del 5,2% o del 5,5% è molto probabilmente sbagliata. È più simile all’1% o al 2%» è l’opinione di Andrew Collier, amministratore delegato della società di ricerca cinese Orient Capital Research. Intervistato dalla Bbc, ha sentenziato: «Credo che i prossimi cinque o dieci anni saranno molto difficili». E, come lui, molti altri sono convinti che la crisi cinese – divenuta evidente con il crollo immobiliare e il fallimento choc della mega società Evergrande – sia destinata a durare.

Vero o meno che sia, senza contraddittorio è stato facile per i portavoce del Partito rilasciare un comunicato in cui, quanto al capitolo economico, è stampigliato l’obiettivo di crescita che Pechino assicura riuscirà a conseguire, appunto il 5% del Pil: «Crediamo nel rimbalzo dell’economia» è stato il solo commento sul tema, e tanto si sono fatti bastare i giornalisti asserviti al potere centrale.

Va però detto che, per quanto il Congresso nazionale del popolo approvi tutto ciò su cui è chiamato a esprimersi dal governo centrale, il voto resta segreto e – almeno questo – garantisce una piccola dose di autonomia. Dunque, vanno guardati bene i margini di approvazione, perché lì si nasconde la verità: quei numeri funzionano (da sempre) come termometro della popolarità delle decisioni prese dal leader. E il fatto che Xi non abbia voluto una conferenza stampa, essendo questo Congresso una sorta di test per misurare la presa di Xi sul partito, la dice lunga sulla tensione che si respira nei palazzi del potere.

Ciò detto, sono state annunciate anche misure per agevolare la ripresa dalla pandemia, di cui la crisi del settore immobiliare resta il lascito più difficile da gestire ancora oggi. Ma anche qui i numeri del comunicato stampa dipingono un quadro probabilmente molto più roseo di quel che è in realtà: Pechino afferma che i posti di lavoro nelle aree urbane aumenteranno di 12 milioni di unità. Il Paese investirà nella ricerca sulle nuove tecnologie tra cui l’intelligenza artificiale (dove il divario con gli Stati Uniti rimane in favore di questi ultimi), e rafforzerà la regolamentazione dei mercati finanziari nazionali. Come? Secondo la maniera più consona al regime: all’inizio di questo mese, per capirsi, il capo dell’autorità di regolamentazione del mercato azionario cinese è stato sostituito ex abrupto, ufficialmente per arginare il crollo del mercato azionario da 8.000 miliardi di dollari.

Ma i funzionari del governo si sono mossi anche contro i trader, accusati di scommettere sempre più spesso contro le azioni delle società cinesi. Così adesso vigono nuove regole sulla vendita di azioni, che disciplinano (e nel caso correggono) le quotazioni all’inizio e alla fine di ogni giornata di negoziazione. Perché nel sistema capitalistico tutto, in definitiva, dipende sempre dalla fiducia dei mercati. Per questa ragione, «il messaggio dei responsabili politici continua a essere quello di ripristinare la fiducia e la domanda interna», come scrive Catherine Yeung, analista della società d’investimenti Fidelity International, che nel mondo gestisce un patrimonio intorno ai 660 miliardi di dollari.

L’unico obiettivo su cui si può scommettere sin d’ora che sarà centrato, concerne il capitolo relativo alla spesa per la difesa militare, che sarà aumentata del 7,2% anche in ragione della questione pendente di Taiwan: tecnologia, armi pesanti, nucleare e spazio le voci principali dove si concentreranno gli investimenti cinesi.

La rimodulazione della politica estera

Quanto alle relazioni internazionali e alle dispute nei mari orientali, a tal proposito dal Congresso è arrivato un inatteso messaggio distensivo con destinatario gli Stati Uniti: la Cina intende creare relazioni bilaterali «stabili, solide e sostenibili», indipendentemente da chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca. Anche perché Pechino, alle prese con il rallentamento della produttività e con l’invecchiamento della popolazione, non può davvero permettersi – almeno non quest’anno – di ingaggiare sfide geopolitiche con la superpotenza occidentale, nonostante Xi Jinping abbia promesso di annettere Taiwan entro il 2025.

A pesare su tali considerazioni c’è anche la fine prematura del sogno proibito di Xi: la Belt and Road Iniziative. La «Nuova Via della Seta» che intendeva conquistare il mercato europeo e aprire i commerci cinesi a Occidente, è stata boicottata in tandem dall’Ue e dagli Stati Uniti, anche (non solo) per l’aggressività con cui Pechino ha perseguito questo obiettivo. Dunque, è tempo di rimodulare l’approccio nelle relazioni internazionali e concentrarsi anzitutto sul risanamento dei fondamentali in patria.

Con gli Stati Uniti c’è in ballo anche la disputa commerciale connessa al rientro in America delle grandi aziende un tempo trasferitesi in massa in Asia. Questa politica di reshoring («rientro a casa») è iniziata nel 2018 sotto la presidenza Trump ed è poi proseguita anche con l’amministrazione Biden. L’effetto benefico del rientro di industrie e capitali ha rilanciato i consumi interni e il Pil americano, creando milioni di posti di lavoro in più per l’America (dove la disoccupazione è stabile a un rassicurante 3%), e parimenti creando una disoccupazione giovanile in Cina che è andata alle stelle nel giro di appena cinque anni. Un eventuale secondo mandato di Trump, potrebbe vedere proseguire questo trend insieme a un probabile riacutizzarsi delle tensioni tra Washington e Pechino, considerato soprattutto che Trump ha già annunciato di voler imporre nuovi e maggiori dazi sulle merci cinesi che, stando a quanto da lui stesso dichiarato alla rete amica Fox News, potrebbero superare addirittura il 60%.

Dunque, quella che emerge dal Congresso nazionale del popolo è la fotografa di una Cina che, dopo anni di risultati straordinari, vive un momento di incertezza tanto nelle ambizioni di crescita e prosperità quando nelle ambizioni di superpotenza e leadership mondiale. Il che, nel bene e nel male, ha un solo e unico responsabile: Xi Jinping.

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Luciano Tirinnanzi