Convention dem
(Ansa)
Dal Mondo

L'altra faccia della Convention nazionale dem

Ci raccontano che la kermesse si sarebbe conclusa in un clima di "gioia" e unità. Ma le cose stanno veramente così?

Conclusasi ieri sera con il discorso di accettazione della nomination da parte di Kamala Harris, è arrivato il momento di fare un bilancio politico dell’ultima Convention nazionale dem. Gran parte dei media non ha fatto che celebrarla, sostenendo che tutto il Partito democratico sarebbe ormai solidamente compattato attorno alla vicepresidente. E’ stato inoltre assai enfatizzato il clima di “gioia” che avrebbe caratterizzato l’intera kermesse. Eppure, è forse utile andare al di là della retorica. Se è certamente vero che la Harris ha guadagnato terreno nei sondaggi e che ha raccolto in poche settimane l’enorme cifra di 500 milioni di dollari, non è probabilmente tutto oro quel che luccica.

Cominciamo col dire che, al di là della “gioia” a favore di telecamera, dalla Convention è trapelato anche un senso di inquietudine. Mercoledì sera, nel suo discorso, Bill Clinton ha messo in guardia i dem dal pensare di avere già la vittoria in tasca. “Abbiamo visto più di un'elezione sfuggirci di mano quando pensavamo che non potesse accadere, quando le persone si sono distratte con problemi fasulli o sono diventate troppo sicure di sé”, ha affermato, riferendosi al 2016, quando sua moglie Hillary fu sconfitta da Donald Trump, dopo che tutti i media e tutti i sondaggi l’avevano data per mesi come vincente. Un invito alla cautela era pervenuto, martedì, anche da Barack Obama. “Questa sarà comunque una gara serrata in un Paese diviso in due”, aveva dichiarato. D’altronde, lunedì, Reuters aveva riportato che, secondo il presidente del Super Pac pro Harris Future Forward, Chauncey McLean, i sondaggi riservati risulterebbero “molto meno rosei” per la vicepresidente rispetto a quelli pubblici. Insomma, le parole di Clinton e Obama, aggiunte a quelle di McLean, fanno capire che, al di là dell’euforia sfoggiata, nel Partito democratico aleggia preoccupazione. Questo non vuol dire, attenzione, che la Harris sia elettoralmente spacciata. Vuol dire semmai che la partita novembrina è assai più aperta di quanto una certa narrazione, un po’ semplicistica, sta cercando far credere. D’altronde, anche guardando ai sondaggi pubblici, non è che, per la Harris, la strada sia tutta in discesa. Secondo la media di Real Clear Politics, il vantaggio attuale della vicepresidente in Michigan e Wisconsin è infatti assai inferiore rispetto a quello detenuto in loco da Joe Biden e Hillary Clinton rispettivamente ad agosto 2020 e ad agosto 2016.

Un secondo elemento problematico emerso dalla Convention è che l’unico fattore realmente coesivo per l’Asinello sembra essere quello dell’antitrumpismo. “L'opposizione a Trump è la forza unificante della Convention nazionale democratica”, ha riferito, mercoledì, Politico. Ora, non stupisce certo che a una Convention dem si attacchi il candidato del Partito repubblicano. Il punto è un altro. E cioè che, al di là dell’opposizione al tycoon, non si capisce quale sia l’altro fattore realmente in grado di tenere uniti i dem. D’altronde, di spaccature interne se ne registrano parecchie. Innanzitutto, l’estrema sinistra filopalestinese continua a rivelarsi agitata. Ha tenuto manifestazioni a Chicago sia lunedì che domenica. Inoltre, martedì ha interrotto un evento in cui stava parlando il vice della Harris, Tim Walz. Tutto questo, mentre il movimento pro Pal aveva chiesto al Comitato nazionale democratico che un proprio rappresentante potesse parlare alla Convention. La richiesta è stata respinta e così, mercoledì sera, i manifestanti filopalestinesi hanno messo in piedi un sit-in, a cui ha altresì preso parte la deputata di estrema sinistra Ilhan Omar. Un sit-in che ha ricevuto l’appoggio anche della sua collega Alexandria Ocasio-Cortez, la quale, lunedì sera, aveva tenuto un discorso in sostegno della Harris alla Convention. Insomma, un cortocircuito in piena regola.

La situazione è da monitorare attentamente. È vero che i Pro Pal sono una minoranza. Tuttavia potrebbero risultare decisivi a novembre in alcuni Stati chiave, come il Michigan e la Georgia. Ricordiamo d’altronde che, nel 2016, Hillary Clinton perse proprio perché alcune migliaia di elettori di Bernie Sanders – in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin – votarono per Trump anziché per lei. È bene inoltre sottolineare che vari deputati dem centristi sono rimasti assai delusi dal fatto che, come suo candidato vice, la Harris abbia preferito Walz al governatore della Pennsylvania Josh Shapiro. Occhio infine ai fedelissimi di Joe Biden, che non saranno magari tantissimi ma che comunque ci sono. Fedelissimi che, oltre a vedere il loro beniamino silurato in modo opaco, lo hanno visto anche ulteriormente umiliato lunedì sera, quando il suo discorso è stato fatto slittare a tarda notte. Chissà che, nel segreto dell'urna, non finiscano per giocare qualche brutto scherzo alla Harris.

Del resto, l’ombra di Biden rappresenta un ulteriore nodo emerso da questa Convention. Nonostante tutti i principali speaker lo abbiano elogiato, si è cercato di sottolineare al minimo la sua eredità politica. Non è del resto un mistero che l’attuale presidente sia impopolare nei sondaggi. Il problema, per la Harris, è che lei è una vicepresidente in carica. Nel suo discorso di giovedì, la diretta interessata ha promesso aiuti alle piccole e medie imprese, oltre che un “taglio delle tasse per la classe media”. Resta però il fatto che lei è al potere adesso. E che, secondo il sito Fivethirtyeight, il suo grado di approvazione come vicepresidente continua a essere piuttosto basso. Il discorso vale anche per la politica estera. Giovedì la Harris ha infatti detto che “ora è il momento di raggiungere un accordo sugli ostaggi e un cessate il fuoco” a Gaza. Tuttavia, sono mesi che la sua amministrazione sta cercando di mediarlo, senza successo. L’eredità di Biden, a lungo andare, rischia quindi di zavorrare la candidata dem, un po’ come accadde, nel 1968, a Hubert Humphrey, che fu azzoppato all’impopolarità di Lyndon Johnson, di cui era vice. Questo è un nodo che l’attuale candidata dem dovrà affrontare nelle prossime settimane. Da una parte, ha bisogno di distanziarsi da Biden; dall’altra, non può farlo, essendo la sua vice in carica.

Tutto questo per dire che, al di là dell’enfasi mediatica che ha circondato la Convention di Chicago, i nodi, per la Harris, restano tutti sul tavolo. Trump, dall’altra parte, ha i suoi problemi, certo. Ma proprio per questo sarebbe il caso di andare con i piedi di piombo. Per settimane, ci hanno ripetuto che la vicepresidente starebbe andando fortissimo, che avrebbe già quasi la vittoria in tasca. Non è così. La partita, come dicevamo, resta apertissima, così come aperta risultava quando il candidato dem era Biden. La cosa importante adesso è cercare di analizzare la situazione a mente fredda. Per questo, è forse finalmente il caso di squarciare il velo di melassa mediatica tessuto da molti media nelle ultime settimane.

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Stefano Graziosi